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giovedì 4 agosto 2011

Anche l’Africa subsahariana vuole la sua primavera





Anche l’Africa subsahariana vuole la sua primavera



Le rivendicazioni democratiche si stanno diffondendo dal Nord Africa e Medio Oriente a sud del Sahara, dal Senegal al Camerun, dal Gabon al Malawi, passando per Uganda e Togo. Limiti e potenzialità delle recenti proteste. Le differenze con la primavera araba.

Limes 3/11 "(Contro)rivoluzioni in corso" | Tutti gli articoli sulla primavera araba


(Carta di Laura Canali tratta da Limes 3/10 "Il Sudafrica in nero e bianco" - clicca sulla carta per andare all'originale)
La primavera araba sembra sul punto di espandersi a sud del Sahara, contagiando i numerosi paesi caratterizzati da regimi simili a quelli di Nord Africa e Medio Oriente.

L’instabilità dell’Africa subsahariana non è certo una novità. La regione è da sempre percorsa da conflitti e lotte intestine per la spartizione di risorse e potere, spesso riconducibili a divisioni etniche. In questo contesto la popolazione civile si è quasi sempre trovata a recitare un ruolo passivo, manipolata dalle rivalità politiche e/o vittima di spietati signori della guerra.


Tuttavia, alcuni eventi verificatisi negli ultimi mesi sembrano segnare un punto di rottura con tali dinamiche. Dall’inizio dell’estate Senegal, Gabon,Togo, Malawi e Swaziland sono stati teatro di manifestazioni popolari nelle quali è emersa quella spinta dal basso che ha contraddistinto le esplosioni nei paesi arabi.


In Senegal, le proteste del 23 e del 27 giugno hanno costretto il presidente Wade a ritirare il suo progetto di riforma costituzionale che ne avrebbe facilitato la rielezione oltre a preparare la successione alla presidenza per suo figlio Karim. L’ottantacinquenne presidente, in carica dal 2000, ha però confermato la decisione di candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali del 2012, nonostante la costituzione preveda un massimo di due mandati. Di fronte all’ostinazione di Wade, il 23 luglio, la popolazione è scesa nuovamente in piazza, confermandosi vigile e in grado di recitare un ruolo attivo nelle vicende politiche del paese. Quanto accaduto in Senegal sembra aver influenzato le proteste contro il regime di Ali Bongo in Gabon.




Sabato 16 luglio, da Libreville è partito un corteo promosso da organizzazioni non governative e sindacati che percorre il paese chiedendo un processo elettorale giusto e trasparente in vista delle prossime legislative in programma a novembre. La similitudine con quanto accaduto in Senegal è evidente: se i senegalesi si sono fatti strada al grido di “Y’ en a marre!”(siamo stufi!), il movimento gabonese ha sintetizzato le ragioni della protesta nel motto “Ça suffit comme ça!” (Ora basta!). Due esclamazioni che esprimono lo stesso sentimento di frustrazione nei confronti di regimi corrotti e antidemocratici. Va ricordato però che Senegal e Gabon sono paesi storicamente molto diversi tra loro. Il Senegal rappresenta infatti uno dei rari esempi africani nei quali si è sviluppato un sistema democratico maturo. È stato proprio il tradimento di questa tradizione democratica da parte di Wade a spingere il popolo in piazza.


Il Gabon invece costituisce uno dei numerosi casi presenti nel continente caratterizzati da una democrazia del tutto formale, dietro la quale si nascondono regimi personali al potere da decenni. Il passaggio di consegne tra Omar Bongo, morto nel 2009 dopo essere rimasto al potere ininterrottamente dal 1967, e suo figlio Ali, ha determinato una successione di natura dinastica. Le proteste non sono una novità: a gennaio il principale esponente dell’opposizione, Andre Mba Obame, si autoproclamava capo dello Stato formando un governo parallelo e incitando la folla a rovesciare Bongo. Si riproponeva così il tipico schema africano che vede gli oppositori politici non riconoscere la legittimità a governare dei propri rivali (ultimo esempio la crisi in Costa d’Avorio). Diversamente, la protesta in corso nasce spontaneamente nella società civile, stanca di un regime considerato come una vera e propria monarchia.


Un giudizio che vale anche nei confronti del Togo. Anche qui i 38 anni che hanno visto al potere il generale Gnassingbé Eyadéma sono stati seguiti, dopo la morte di quest’ultimo nel 2005, dall’ascesa del figlio Faure, giunto al vertice dello Stato non senza un’apposita quanto repentina modifica della costituzione realizzata con l’appoggio dei militari. Faure è stato poi rieletto nel 2010 con evidenti manipolazioni elettorali e spregiudicate manovre che hanno impedito ai suoi principali oppositori di presentarsi alle elezioni. In questo contesto, il popolo togolese si è mobilitato negli stessi giorni di giugno in cui i senegalesi manifestavano contro Wade. Da allora, ogni giovedì l’opposizione protesta contro l’accentramento del potere nelle mani del presidente e in particolare nei confronti di un progetto di legge che conferirebbe al capo dello Stato più autorità in tema di giustizia.


Le contestazioni hanno inoltre interessato tre diversi settori della popolazione: gli abitanti della regione di Vo, ricca di giacimenti di fosfati (il Togo ne è il quarto esportatore mondiale), hanno richiesto al governo maggiore redistribuzione della ricchezza e possibilità di impiego per i giovani dell’area; contemporaneamente studenti e docenti dell’Università di Lomé hanno bloccato le attività didattiche per manifestare contro la riforma voluta dal governo; il mancato accordo tra governo e sindacato ha invece paralizzato il settore sanitario, causando enormi disagi.


I recenti avvenimenti che hanno interessato Senegal, Gabon e Togo si innestano in un contesto regionale - quello dell’Africa Occidentale - nel quale già nei primi mesi del 2011 si erano registrati movimenti popolari sulla scia di quelli nordafricani. Dall’inizio dell’anno, in Burkina Faso il regime guidato da Blaise Compaoré è scosso dalle rivendicazioni politico/economiche di parte dell’esercito. Inoltre le condizioni di vita della popolazione sono peggiorate a causa della lunga crisi ivoriana che per mesi ha bloccato l’accesso al mare alle esportazioni di cotone, fondamentali per una delle economie più povere del continente. In questo scenario insegnanti, studenti e piccoli commercianti sono a più riprese scesi in piazza per manifestare contro il continuo rincaro dei prezzi. Le contestazioni hanno però assunto il carattere di vera e propria rivolta contro il regime dopo la morte di un giovane manifestante rimasto vittima della repressione governativa dell’11 marzo.


Anche in Camerun si aspira al cambiamento: già nel febbraio del 2008 la popolazione aveva protestato nei confronti della riforma costituzionale che consentirà a Paul Biya, presidente in carica da 28 anni, di ricandidarsi alle elezioni del prossimo ottobre. Il 23 febbraio 2011, a tre anni da quell’ evento durante il quale l’intervento dell’esercito causò decine di vittime, le opposizioni hanno organizzato una nuova contestazione, richiamandosi esplicitamente alla rivoluzione tunisina e a quella egiziana. Solo l’ingente dispiegamento di forze dell’ordine ha impedito il pieno successo della manifestazione, dimostrando tuttavia lo stato di allerta in cui vivono le istituzioni locali. Un nervosismo confermato dalla successiva sospensione di Twitter decisa dal governo. La zona occidentale del continente non è la sola a essere interessata da agitazioni popolari.


Nella regione dei Grandi Laghi, l'Uganda negli ultimi mesi ha vissuto momenti di forte tensione, da quando Yoweri Museveni è stato confermato al vertice dello Stato dopo la contestata vittoria alle elezioni dello scorso febbraio. La popolazione è più volte scesa in piazza per manifestare il proprio malcontento nei confronti del continuo innalzamento dei prezzi e dell’arresto di alcuni esponenti dell’opposizione da parte di un regime che governa il paese da ormai un quarto di secolo. Il 29 aprile l’episodio più cruento, con 2 morti e numerosi feriti lasciati sul campo dall’intervento dell’esercito.


Ancora più violenta la repressione in Malawi, dove il progressivo restringimento delle libertà politiche e civili verificatosi a partire dall’elezione nel 2004 di Bingu wa Mutharika ha indotto i principali donatori internazionali a bloccare gli aiuti dai quali il paese dipende per il 40% del suo budget. La conseguente introduzione di una nuova tassa su alcuni beni di prima necessità e il crollo delle esportazioni di tabacco hanno determinato un repentino peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, che il 20 e il 21 luglio si è riversata nelle strade della capitale Lilongwe e dei centri urbani di Blantyre e Mzuzu. Il duro intervento dell’esercito ha causato 19 morti e numerosi feriti.


Anche il Regno dello Swaziland, una delle ultime monarchie assolute rimaste al mondo, è stato colpito dalle proteste: il re Mswati III rientrerebbe nei 15 sovrani più ricchi del pianeta a fronte di una popolazione che per il 70% vive con meno di un dollaro al giorno. Gli ultimi episodi di violenza di luglio nella capitale Mbabane e nella città di Siteki hanno avuto come spunto la cronica mancanza di medicinali, ma anche in questo caso sono presenti forti aspirazioni democratiche sostenute da un movimento della società civile attivo dall’inizio del 2011 che contesta la forma monarchica dello Stato. Ai paesi analizzati si possono aggiungere i casi di Djibouti e dell’Angola.


Nel piccolo Stato del Corno d’Africa, strategico per la presenza di basi militari occidentali, le proteste sono andate in scena a metà febbraio; in Angola, gigante regionale e importante produttore energetico, è nato un movimento apolitico che sta chiamando a raccolta i cittadini per una manifestazione da tenersi il prossimo 26 agosto contro l’ormai più che trentennale regime di Eduardo Dos Santos.


Va tuttavia osservato che, se si esclude il caso del Senegal, la cui società civile appare effettivamente pronta a recitare fino in fondo un ruolo decisivo per gli sviluppi futuri del paese, nessuno dei regimi contestati sembra in reale pericolo di caduta nel breve periodo. Il basso tasso di alfabetizzazione, l’accesso ancora limitato a internet e l’assenza di classe media, costituiscono elementi che permettono ai big men africani di tenere ancora sotto controllo il malcontento popolare. A ciò si deve aggiungere l’estrema frammentazione che spesso caratterizza le opposizioni, privandole della capacità di offrire un’alternativa concreta alle attuali leadership.


È però importante sottolineare la contemporanea presenza, in molti paesi, di movimenti popolari contraddistinti da un esplicito e forte desiderio di cambiamento politico. Un fenomeno che, anche se non sembra per ora in grado di produrre gli effetti che stanno ridisegnando gli equilibri a nord del Sahara, costituisce un elemento di novità dalla portata imprevedibile. In ogni caso, le proteste popolari in atto si vanno ad aggiungere ai costanti timori per la stabilità di un continente già scosso dal venir meno del principio dell’inviolabilità dei suoi confini coloniali a seguito a della nascita del Sud Sudan.


In questo quadro, i numerosi appuntamenti elettorali in programma tra l’autunno del 2011 e l’inizio del 2012, in contesti particolarmente delicati come la Liberia, la Repubblica Democratica del Congo, gli stessi Gabon,Camerun e Senegal e lo Zimbabwe, potranno dare il segno di quanto le attuali ebollizioni della regione subsahariana siano prodromiche di cambiamenti simili a quelli in atto nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

di Davide Matteucci


"(Contro)rivoluzioni in corso" | "Il Sudafrica in nero e bianco"



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