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mercoledì 16 dicembre 2009

Il sangue e la maschera di Silvio Berlusconi

Il sangue e la maschera

Attilio Scarpellini di Lettera22


Una maschera che si disfa nel sangue e per un momento tutta l’umanità, cristallizzata nel cliché del sorriso – del volto pop di Silvio Berlusconi che la rivista Rolling Stone ha giustamente consacrato come rockstar dell’anno – trasale inaspettata. Per tutti, a cominciare dalla vittima dell’aggressione, mai così sofferente, mai così attonita, nel constatare che il vivificante contatto con gli altri, il bagno nell’eterna giovinezza della folla, può bruscamente rovesciarsi in tocco fatale, in cruenta profanazione. E’ l’altra faccia – folle, ma simbolicamente speculare – di tutte le adorazioni, questo passaggio repentino, brusco, dalla figurazione alla sfigurazione, ed è il destino crudele di tutte le icone. Uno scrittore, Alessandro Raveggi, ne ha descritto il processo come meglio non si potrebbe in un articolo pubblicato sul web (http://www.slipperypond.co.uk/archivi/post3736). Se è nell’immagine che il potere si condensa – se è nell’immagine che il potere si reifica proponendosi come oggetto di culto, a un tempo inaccessibile e a disposizione, unico e indefinitamente moltiplicato – il gesto esecrabile di Massimo Tartaglia può essere considerato irrazionale ma non illogico. E quel che ora tutti sembrano affannarsi a nascondere tra i vicoli ciechi del labirinto mentale del suo esecutore è la logica irrazionale che esso ha portato in evidenza.

Molti dei giornalisti che adesso soffiano sul fuoco della pacificazione – a cominciare da quelli del Corriere della Sera – dimenticano di aver a suo tempo trattato il leader che si concedeva alle litanie celebrative in suo onore [nobile e giusto/ tu ci piaci per questo/ sei il pensiero che ci guiderà/ Silvio for ever sarà] alla stregua di Kim Il Sung. I dipietristi che oggi ostentano la loro mancanza di ipocrisia [una qualità, guarda caso, richiesta ed apprezzata da Fabrizio Cicchitto] nel condizionare la solidarietà al premier ferito, dimenticano di essere stati i principali fomentatori, non dell’odio che ha armato l’aggressore, ma del culto paranoico di cui Silvio Berlusconi è oggetto in questo paese. Un culto di cui l’odio espresso da Tartaglia [già pronto a ritorcersi, come all’epoca di Ali Agca, in disperata richiesta di amore] è un inevitabile epifenomeno: sogno realizzato e momento di gloria, ineffabile quarto d’ora di celebrità, per i 70.000 impotenti che lo esaltano su Facebook. Indire una manifestazione contro un solo uomo – autorizzandolo a giocare la commedia demoniaca dell’uomo solo, da tutti perseguitato – a cosa altro può condurre se non all’insperato rilancio della sua sindrome di onnipotenza? Comparsa tragica, e solitaria a dispetto dei suoi fans, di una sacra rappresentazione sanguinaria a cui ha solo prestato la mano, come un attore strasberghiano finito un po’ troppo sopra le righe, Tartaglia sicuramente ignorava che con il suo simulacro di duomo – più volte bilanciato dal braccio che lo ha scagliato – avrebbe compiuto il miracolo che un intero apparato di agit-prop [e di agit-pop] non era negli anni riuscito a compiere: quello di incarnare l’immagine di Silvio Berlusconi, leader e uomo sanguinante, icona sfigurata e, per questo, “vera”. Per un momento, per un solo momento che i fotografi e le televisioni trasformavano già – in un tempo altrettanto rapido della giubilante jacquerie che affiorava in rete – in un nuovo, siderale, oggetto di culto: trasmesso e ritrasmesso, instancabilmente ripetuto, percussivo come i mantra visuali delle catastrofi contemporanee. Dal gesto di perdono che già si annuncia, pronto a scendere sul malcapitato attentatore, mutando l’offesa in carezza, sarà comprensibile l’estensione del ricatto che ci apprestiamo a subire (e che abbiamo variamente meritato) per non essere riusciti a distogliere lo sguardo dalla pervasività di questa icona – o per non aver abbastanza sperimentato, come dice Raveggi, “la possibilità di riconoscerci diversamente dal potere più assoluto”.

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