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Mundimago

lunedì 16 novembre 2009

Obama in Cina e la crescita post-crisi


Obama in Cina e la crescita post-crisi

Raffaele Sciortino

La missione orientale del presidente statunitense indica il rapporto stretto tra l'economia statunitense e quella cinese. Soprattuto, ci aiuta a capire i nuovi equilibri della produzione globale dopo la grande crisi dello scorso autunno. Si tratta di assetti instabili e precari che legano a doppio filo la Cina e il pianeta intero.

Mentre a Berlino si notava la sua assenza, Obama stava probabilmente preparando con lo staff il suo viaggio in Asia Orientale che ha avuto inizio questa settimana. Nulla di più simbolico. La «centralità» del teatro europeo dominato dal bipolarismo – un dispositivo quasi perfetto di blocco del cambiamento sociale che alla fine è comunque saltato – è finita per sempre. La caduta del Muro ha sancito e aperto alla riunificazione del mercato mondiale, via globalizzazione neoliberista, ma il suo asse si è spostato altrove.
La crisi globale non ha fatto che confermare questo trend. Agli occhi delle élites asiatiche, e non solo delle élites, il prestigio dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare si è in parte volatilizzato. Vedremo inchini e sorrisi diplomatici, nel trip asiatico del nuovo presidente, ma nessun segno della facile Obamamania che ha buon corso – ma per quanto ancora? – qui da noi. Quello che si è aperto infatti, e per ora resta sotto la superficie, è uno scontro o, se vogliamo, una competizione sul «pattern di crescita» che dovrebbe sostituire il corso rivelatosi con la crisi insostenibile.
I consiglieri del Presidente sono stati limpidi nelle dichiarazioni pre-viaggio. James Steinberg, vicesegretario di Hillary Clinton e responsabile per la China Policy di Washington, in un intervento al Center for American Progress [pensatoio obamiano] ha affermato che la crescita globale post-crisi dovrà essere «equilibrata» [balanced], rigettando implicitamente sulla Cina le responsabilità per i global imbalances – il deficit commerciale e l’indebitamento statunitensi – che stanno dietro la crisi. Jeffrey Bader, responsabile del National Security Council per l’Asia Oreintale, è stato più esplicito in un discorso al Brookings Institute [think tank dei «falchi» democratici]: «la Cina ha raggiunto la prosperità eceonomica grazie al consumatore americano… non è un modello sostenibile». I colloqui a Pechino toccheranno allora il tema della moneta cinese, che per Washington è sottovalutata a scapito delle esportazioni Usa, e della necessità di ribilanciare la crescita, cinese e asiatica, sulla domanda interna e su di una maggiore apertura di quelle economie. E qualche avvertimento da parte della nuova amministrazione c’è già stato con l’aumento delle tariffe su pneumatici e tubi di acciaio cinesi. In realtà, agli occhi della classe globale che ha la sua centrale a Wall Street, il problema non è certo il flusso di import-export, reso inestricabile dalla internazionalizzazione delle catene produttive e distributive, bensì la presa sui flussi globali di valore.
Ma anche ai dirigenti di Pechino non mancano motivi di preoccupazione e scontento, principalmente verso il modo in cui Washington sta affrontando la crisi: evitando la pulizia a fondo dei bilanci delle banche e delle istituzioni finanziarie, ampliando enormemente il debito pubblico, sfuggendo al «rigore fiscale» inevitabile, facendo della tanto promessa regolazione dei mercati finanziari – come riconosce il New York Times – una mezza farsa. Insomma, la politica statunitense è capace solo di mettere una toppa al disastro della finanziarizzazione; in più gioca ora sulla caduta del dollaro stampando moneta, segnale inequivoco della tentazione di liberarsi dell’enorme debito accumulato inflazionando l’economia globale con dollari svalutati. Come a fine anni ottanta, quando a farne le spese fu il Giappone su cui venne scaricata la bolla speculativa di quel decennio. Come, in altre circostanze, nel ‘71 con lo sganciamento dollaro-oro che sancì la fine di Bretton Woods I [ma allora Mao, con una delle sue geniali manovre «tattiche», venne in soccorso dell’amministrazione Nixon, impantanata nella sconfitta in Vietnam e nel caos monetario, con il rapprochement sino-americano].
E ciò nonostante Pechino e Washington sono costrette a cooperare, sul breve e medio periodo. Washington, perché i rapporti di forza sono mutati e non può facilmente e impunemente scaricare su altri gli effetti della crisi, perché ha bisogno del credito cinese e asiatico per finanziare l’enorme debito e indirettamente le misure antirecessive, e perché solo grazie all’enorme pacchetto cinese di stimolo ha evitato per ora il double dip, la doppia caduta dell’economia. Solo a queste condizioni l’élite globale può, forse, prender tempo. Pechino, perché si trova legata a doppio filo con il mercato statunitense, perché è caduta nella «trappola del dollaro» avendone accumulato riserve ingenti [2,2 trilioni] anche per non far decollare il renminbi, e soprattutto perché non dispone a breve né a medio termine di un effettivo modello sostituivo di quello orientato sulle esportazioni e sui surplus delle partite correnti.
E’ vero che nel frattempo la Cina non è restata ferma: ha sollevato il problema di una nuova moneta mondiale di riserva e di una ristrutturazione delle istituzioni internazionali, sta diversificando rispetto al dollaro e acquistando a man bassa oro, va facendo shopping nel mondo di materie prime e altre risorse, investe e intesse nuovi legami economici e politici con America Latina, Africa, Russia, oltre che ovviamente nella regione con l’idea di un fondo monetario asiatico [la Chiang Mai Iniziative lanciata nel 2000]. Ma, appunto, la domanda globale è ancora il driver fondamentale della crescita interna e insieme, per la classe dirigente postmaoista, la conditio sine qua non della stabilità sociale [massima preoccupazione della fazione di partito Tuanpai attualmente al governo, di contro alla linea più liberista dei Taizi].
Di qui la necessità di far buon viso a cattivo gioco. Ricontrattare sì con l’amministrazione Obama maggiori spazi di manovra – anche in ambito regionale attraverso l’Asean+3, l’integrazione economica con Taiwan, il possibile nuovo corso col Giappone post elezioni, il che desta comunque preoccupazioni nei circoli statunitensi – ma senza potersi svincolare per ora dall’abbraccio con Washington e dal suo attento controllo. Dalla visuale dell’attuale amministrazione statunitense – ma certo non mancano né mancheranno prese di posizioni più dure – si tratta della linea della strategic reassurance: «un accordo fondamentale anche se tacito… siamo pronti ad accogliere l’arrivo della Cina come potenza, ma la Cina deve rassicurare il resto del mondo che il suo sviluppo e il suo crescente ruolo globale non andranno a spese della sicurezza e della prosperità di altri», nelle parole ancora di James Steinberg. Rassicurare con i comportamenti, ovviamente. Ecco allora il tentativo attuale di coinvolgimento di Pechino su un’agenda globale il cui significato di fondo, da non fraintendere, è spingere la Cina ad assumersi rischi come «attore responsabile» e partecipare così al salvataggio della controparte. Accantonata da parte nordamericana e già rifiutata da parte cinese per il rischio di eccessiva esposizione globale l’impegnativa formula del G2, e indebolitasi la metafora in qualche modo rassicurante di Chimerica, al momento resta la consapevolezza di non poter fare a meno l’uno dell’altro sapendo però che le «frizioni sui problemi di lungo periodo» sono già oggi inevitabili, come osserva il Wall Street JournalJ. Ecco allora che, alla vigilia dell’arrivo di Obama, la Banca del Popolo si dice pronta a un graduale apprezzamento della moneta cinese, il che comunque non risolverà affatto i problemi di fondo della controparte.
Questo instabile assetto globale – si va verso il multipolarismo o verso una fase tendenzialmente a-polare, incerta e disordinata? – vede dunque all’opera un paradosso assolutamente inedito: l’ascesa della Cina e il suo rafforzamento internazionale sono condizionati dalla prosecuzione della cooperazione economica con gli Stati Uniti, tramite al momento inaggirabile dell’inserimento cinese nel mercato mondiale. Con i vantaggi, fin qui indubbi, ma anche i rischi che ciò comporta, resi evidenti da una crisi globale niente affatto conclusa.
Ne è riprova l’attuale passaggio della congiuntura mondiale. Se, come sembra, la caduta ha subito un rallentamento, con qualche timido indice positivo – ancorché economico e non sociale – ciò è dovuto in gran parte al «traino» cinese, indiretto e diretto. Da un lato, il programma di stimoli di Obama è stato reso possibile dalla continuata erogazione di crediti cinesi, che permettono altresì alla Federal Reserve di tenere bassi i tassi di interesse. Dall’altro, l’ingente pacchetto di aiuti all’economia varato da Pechino ha consentito di ovviare in tempi record alla caduta eccezionale delle esportazioni con offerta di moneta e prestiti pubblici per investimenti infrastrutturali, il che sta richiamando flussi di capitale speculativo da tutto il mondo [un po’ come in Brasile]. Una boccata d’ossigeno per l’economia mondiale, dunque, ma per Pechino anche il rischio di un bubble speculativo, con il surriscaldamento dei prezzi degli assets, una caterva di bad loans di difficile solvibilità e, su tutto, il ricordo della crisi asiatica del ‘97 scaturita dall’esposizione eccessiva ai flussi di capitale globali e alle decisioni sui tassi rimaste nella mani di Washington. Di qui, a ottobre, una prima stretta sui prestiti operata dalla banca centrale cinese. Il che solleva le questioni: quanto è sostenibile, e a che costo, questo tipo di ripresa legata esclusivamente a politiche monetarie espansive? Quanto è possibile per la Cina, oggi, crescere senza una domanda globale adeguata? E, al fondo, quanto l’incremento cinese di investimenti per infrastrutture non solo accentua il suo orientamento sulle esportazioni ma aggrava anche quello che, a scala globale, si configura come eccesso di capacità produttive [rispetto non ai bisogni sociali ma alla profittabilità]? Un articolo dell’Economist di questa estate, oggi non più rintracciabile sul sito della rivista ma postato anche nei blog cinesi, recitava: «Non c’è miracolo nella miracolosa crescita cinese, e la Cina pagherà un prezzo, è solo questione di quando e in che misura». Andrebbe forse aggiunto: lo pagherà l’intera economia globale se è vero che gli interventi statali a favore delle banche ammontano a 14 trilioni di dollari facendo quasi urlare a un guru neoliberista come Martin Wolf che qui siamo al «socialismo di stato». Il rischio di bancarotta di intere compagini statali sarà la prossima grande paura della classe globale.
Certo, la crescita cinese anche oggi non è esclusivamente «congiunturale» sulla base delle precarie condizioni viste ma rimanda a robusti trend degli ultimi venti anni. Ciò non toglie che essa resta legata a doppio filo al mercato mondiale e quindi, oggi, alla necessità di una nuova ripresa dell’economia globale. E questo è stato finora possibile grazie al crearsi via via di bolle «speculative» che sono l’altra faccia della finanziarizzazione del capitalismo nella sussunzione reale. Possibile che i dirigenti cinesi non se ne siano fin qui accorti? Possibile che non sapessero che la condizione di possibilità delle esportazioni cinesi era ed è il comando finanziario e monetario di Washington sulla produzione globale? Un meccanismo economico e militare nel quale Obama, oramai ciò si fa evidente, inserirà modifiche assai parziali e quasi solo di facciata rispetto a quello che è il problema: un nuovo equilibrio globale a guida statunitense che riesca, prima o poi, a determinare quale dei vari soggetti deve bruciare la gran parte di capitale «fittizio» [in senso marxiano] necessaria per un vero rilancio del sistema.
A meno che… l’alternativa di un ampliamento del mercato interno non risulti ancora più indigesta alla borghesia cinese e asiatica, comportando un aumento secco dei salari, e della potenza, della massa di produttori fin qui a basso costo. Il che è in controtendenza con tutte le ricette finora abbozzate e non si può dare, quindi, senza lotta di classe e sconvolgimento di tutti gli assetti politici e sociali interni: sarebbe la fine per le «credenziali» acquisite dalla classe dominante cinese agli occhi delle élites occidentali. Sulla contraddizione reale tra la difficoltà di riconversione del modello di crescita della Cina e l’eventuale spinta in questa direzione dovuta alla crisi globale, alle pretese di un partner statunitense sempre più parassitario nonché alle spinte dal basso, si giocherà una partita decisiva. Ma a giocarla non saranno solo i poteri a Washington e a Pechino.




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