Le Carte Parlanti

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lunedì 31 agosto 2009

Costa Rica, ministero della Pace




Costa Rica, debutto mondiale del ministero della Pace



La Costa Rica è il primo paese al mondo a avere un ministero di questo tipo
Novità in vista nella Costa Rica: il piccolo Paese centro americano, infatti, sarà il primo Stato al mondo ad avere un ministero quasi esclusivamente dedicato alla Pace. Il testo della proposta di legge approvata dalla commissione parlamentare ora dovrà arrivare all'aula che senza ombra di dubbio lo approverà. Dunque, il ministero di Grazia e Giustizia cambierà nome e entro breve si trasformerà nel ministero della Giustizia e della Pace.

Ana Helena Chacon, la deputata che ha avviato le procedure per la proposta di legge, appoggiato dalla quasi totalità della società civile costaricense, ha fatto sapere che il progetto comprenderà anche la nascita di programmi per la diffusione della cultura di pace a tutto campo. "Sono molto felice e orgogliosa che questa mia proposta sia stata accettata. Così facendo diverremo uno dei paesi pionieri in materia. La Costa Rica è il primo paese dell'America Latina a avere questo tipo di ministero che combatterà anche contro la delinquenza giovanile" conclude l'onorevole.
Arrivare alla creazione del Sistema Nazionale della Promozione della Pace, poi, sarà un gioco da ragazzi. Il nuovo dicastero si occuperà della "promozione della Pace e della prevenzione e risoluzione dei conflitti". Saranno invitate a collaborare tutte le organizzazioni non governative che si dedicano alla diffusione della cultura della Pace e contro la violenza.
La Costa Rica da sempre è uno dei paesi del mondo più attenti al tema Pace. Molto nota in tutto il mondo è anche l'Università della Pace che si trova nella capitale San Josè.

Non solo: la Costa Rica non ha un esercito. 

Inoltre, il presidente Oscar Arias è stato insignito del premio Nobel per la Pace nel 1987 grazie al suo impegno contro le guerre che hanno devastato l'area negli anni '80. Anche Oggi Arias è impegnato come mediatore nei colloqui che dovrebbero portare a una soluzione della crisi politica che ha colpito l'Honduras.

Un paese disarmato è possibile? L’esempio della Costa Rica

L’abolizione dell’esercito è sempre sembrata un’utopia auspicabile solo da “fricchettoni” pacifisti. Ma c’è un Paese, la Costa Rica, che lo ha fatto 60 anni fa.

QUANDO LE SPESE MILITARI SPARISCONO – L’abolizione dell’esercito è sempre sembrato un sogno illusorio, un’utopia auspicabile solo da “fricchettoni” pacifisti, ignari dei rapporti internazionale da dover mantenere. Ma c’è un Paese, la Costa Rica, che lo ha fatto sessant’anni fa  per opera di José Figueres Ferrer, coriaceo figlio di catalani emigrati in America. Il 1° dicembre 1948, il paese era uscito da poco da una  guerra civile, che aveva provocato centinaia di morti. In breve, dopo due mesi di combattimenti, il socialdemocratico Ferrer assunse la direzione del governo provvisorio, nazionalizzò le banche e annunciò l’abolizione dell’esercito.

Dopo la firma del decreto legge, il presidente del governo provvisorio si recò alla caserma Bellavista, situata nella capitale San José e davanti alla folla, con una mazza, colpì simbolicamente il muro della caserma. Lo stesso giorno, Ferrer offrì la caserma Bellavista all’università della Costa Rica, che la trasformò in un museo. In questo gesto simbolico è racchiuso il motivo principale dell’abolizione dell’esercito: eliminare le spese militari per aumentare i fondi destinati all’istruzione e per migliorare le condizioni sanitarie di questo Paese. In effetti, attualmente la Costa Rica ha un tasso di alfabetizzazione del 96% e la speranza di vita, di quasi settantasette anni, è quella più alta in tutta l’America Latina.


IL POPOLO E’ D’ACCORDO – Da quando la Costa Rica ha deposto le armi non ci sono state né invasioni né guerre, nonostante l’America Centrale si possa sicuramente considerare una “zona calda” del mondo. Ad oggi, infatti, lo sforzo più grande per la Costa Rica è quello di mantenere questa cultura pacifista in un’area martoriata da continui conflitti. «Smettiamo di comprare armi per pagare più professori e più medici» non si è rivelato solo uno slogan sterile e retorico. Secondo la fondazione Arias per la pace e per il progresso umano, la soppressione delle forze armate permette di finanziare  le università pubbliche e tre interi ospedali.

Esiste però anche un rovescio della medaglia. Rosibel Salas Herrera, vicedirettrice di un istituto tecnico nella regione del Coto Brus, riconosce l’efficienza del sistema d’istruzione, ma ne critica le diseguaglianze. Mentre nella capitale gli studenti dispongono di computer e biblioteche, ritiene che nella regione in cui lei lavora la situazione non sia altrettanto edificante: i bambini sono costretti a seguire le lezioni in aule fatte di lamiere.

Nonostante ciò, nessuno pensa di rimettere in discussione la rinuncia delle spese militari. Per citare un avvenimento emblematico, solo nel 1985 l’America Centrale è stato teatro delle guerre in Guatemala, nel Salvador e in Nicaragua. Così, di fronte alla minaccia che il pericolo potesse raggiungere anche la Costa Rica, il governo aveva un’inchiesta tra la popolazione per sapere se fosse favorevole o no al ripristino delle forze armate. Ebbene, ben il 90% degli intervistati si è rivelato contrario.


L’ECONOMIA DELLA CULTURA – La Costarica è così diventato l’esempio di un Paese che ha costruito sull’assenza dell’istituzione militare la base per il suo sviluppo: è al 48° posto al mondo negli indici di sviluppo, mentre gli altri stati dell’America Centrale sono dietro ai primi cento. Qui le piazze, i monumenti e le vie non ricordano guerre o battaglie, ma i solidi principi su cui si basa questo  Paese:  piazza della Cultura, parco della Pace, la rotonda delle Garanzie Sociali si possono citare come esempi.

Probabilmente anche l’Italia potrebbe considerare questa come alternativa adatta per la riduzione del debito pubblico e il risanamento del pareggio di bilancio prendendo esempio dall’unico Paese al mondo che il giorno di festa nazionale fa sfilare gli studenti anziché i soldati. Le cifre riguardanti i soldi spesi dall’Italia nelle cosiddette “missioni di pace” rivelano un impegno di non poco conto in relazione ai sacrifici a cui sono chiamati gli italiani. E non solo in relazione all’aumento della pressione fiscale, ma anche ai tagli in settori sociali di primaria importanza quali istruzione, sanità ed altri.

Ma se il modello inaugurato più di cinquant’anni fa da Pepe Figueres  Ferrer ha portato la Costa Rica ad essere tra i primi posti  negli indici di sviluppo mondiale, cosa aspettano Stati europei come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia a seguire l’esempio di questo piccolo ma democratico Stato?

L'ITALIA SPENDE 50 MILIONI DI EURO AL GIORNO
IN ARMAMENTI



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Argentina, nuovi metodi di lotta alla droga

Argentina, nuovi metodi di lotta alla droga


La Corte Suprema di Buenos Aires: "Uso personale di marijuana non è più illegale"

Un intero continente, quello americano, da molto tempo ha dichiarato guerra alla droga. E ai cartelli che ne controllano produzione e vendita.

Dalla Colombia al Paraguay, passando per Argentina e Bolivia e arrivando fino in Messico, montagne di marijuana e cocaina invadono le strade di ogni paese dell'area. In tutto il continente, isole comprese, è facilissimo acquistare un po' d'erba da fumare. Purtroppo non è difficile nemmeno trovare qualche grammo di cocaina pura da sniffare. I prezzi sono bassi e la percentuale di giovani che si approcciano per la prima volta alla droga (sia essa pesante o leggera) aumenta ogni anno. I metodi usati finora per cercare di contrastare produzione e vendita di sostanze stupefacenti sono stati quasi inutili. Il proibizionismo, ad esempio, ha fallito. I mega finanziamenti e i progetti Usa (vedi Plan Colombia) si sono rivelati inutili: la roga circola ancora e sempre in maggiori quantità. Che fare, dunque? L'unica via da seguire sembra essere quella di legiferare in materia e giungere a una sorta di legalizzazione delle droghe, soprattutto quelle leggere. Diverse nazioni hanno già preso una decisione. Come l'Argentina. Buenos Aires, infatti da oggi dichiara guerra alla droga facendo in modo diametralmente opposto a prima. La Corte Suprema infatti ha deciso: il possesso di marijuana per uso personale non sarà più illegale e quindi perseguibile dalla legge. Secondo la Corte "Ogni adulto è libero di decidere per la sua vita senza l'intervento dello Stato. Lo Stato non può stabilire cos'è morale e cosa non lo è" e per questo non è costituzionale perseguire chi fa uso di marijuana.

Altri Paesi hanno già più o meno deciso di seguire la stessa strada. Alcuni lo stanno già facendo. Come ad esempio il Messico (conosciuto come uno dei maggiori produttori di ganja del pianeta). L'amministrazione messicana si è addirittura sbilanciata è ha legiferato anche su droghe pesanti. Da qualche tempo in Messico detenere 5 gr. di erba, 0,5 gr. di eroina, 0,4 gr. di cocaina e qualche grammo di oppio non è più reato. La volontà era quella di non punire più il consumatore finale e alleggerire le forze si sicurezza da compiti di minore importanza per concentrarsi sulle indagini per scovare i grandi narcotrafficanti. Ecuador e Brasile hanno già fatto sapere di voler valutare la situazione ma che le decisioni come quella argentina sono fra le più positive.
E non va dimenticato come nei mesi scorsi il governatore della California, uno degli stati Usa dove dal confine messicano entra più droga, Arnold Schwarzenegger, aveva ipotizzato una nuova legislazione in materia di marijuana spiegando l'intenzione di voler tassare la coltivazione, il commercio e l'uso di cannabis, così da rimpinguare facilmente in modo veloce le casse dello Stato da lui governato.

"Forse il motivo principale che ha spinto uno stato come il Messico a una revisione così radicale del tema droghe è stata la violenza. Si è fatta troppo visibile e feroce e negli ultimi anni la lotta fra bande di narcos e lo stato centrale ha assunto i connotati di una vera e propria guerra. Combattuta senza esclusione di colpi e con l'uso frequente di armi da guerra" dice Pietro Moretti, vicepresidente dell'Aduc, l'associazione per i diritti degli utenti e dei consumatori. "E' stato giusto pensare a soluzioni diverse dal proibizionismo, mentalità fallita. Ed è giusto rivalutare i danni. Fa più male uno spinello o stare in carcere per pochi grammi di erba? Nel secondo caso il danno è maggiore perchè si rovina la vita a un ragazzo e alla sua famiglia. Il suo futuro è compromesso. Legiferare in materia di droga e ripensare al tutto sarebbe più positivo. E poi oggi - continua Moretti - la lotta alla droga oggi è visto anche come un argomento di politica internazionale".
Alessandro Grandi

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Giappone, via la destra

Giappone, via la destra: vittoria storica dei democratici

di Gabriel Bertinetto

Pronostici rispettati in pieno. I Democratici ottengono una schiacciante vittoria nelle elezioni parlamentari, e ricacciano all’opposizione il partito Liberaldemocratico (conservatore), che ha governato il Giappone quasi ininterrottamente negli ultimi 54 anni. Yukio Hatoyama, leader della formazione di centrosinistra, potrà governare forte della maggioranza assoluta dei seggi. Secondo dati ancora non definitivi i Democratici triplicano i seggi (da 115 a 308). Il contrario accade ai Liberaldemocratici che da 300 crollano a 119. Alle otto di sera, quando le urne chiudono, le televisioni diffondono i primi exit-poll, ed è subito chiaro che è un trionfo per la formazione i cui fondatori in origine amavano sottolineare le somiglianze con l’Ulivo italiano. Nella sede dei Democratici si alza un boato. La festa comincia.

Atmosfera cupa invece al quartiere generale liberaldemocratico. Il premier uscente Taro Aso si assume la responsabilità della disfatta ed esorta i suoi a scegliere rapidamente il successore alla guida del partito. La rivolta dell’elettorato ha colpito moltissimi dirigenti di spicco, abituati a passare di successo in successo da un’elezione all’altra. I guasti provocati nella vita quotidiana dei cittadini da una crisi economica che in Giappone è iniziata ben prima che scoppiasse lo sconquasso nei mercati finanziari mondiali, e il disgusto per gli scandali pubblici e privati degli uomini di potere, hanno spinto gli elettori a voltare le spalle ad un partito troppe volte perdonato in passato. Interpretando un sentimento diffuso, Hatoyama dichiara: «Oggi la gente ce l’ha con la politica e con la coalizione di governo in particolare. Abbiano percepito fra i cittadini un grande diffuso desiderio di cambiare la propria vita. Abbiamo lottato in questa battaglia elettorale per dare loro un cambiamento di leadership». I Democratici si sono presentati all’elettorato promettendo fra le altre cose di ristrutturare la spesa pubblica, limitando gli sprechi e concentrandosi sul sostegno ai consumatori, alle piccole e medie imprese. Hanno inoltre annunciato l’intenzione di regolarizzare il lavoro precario (oltre un terzo del totale contro il quinto del 1990). Suo terreno dell’aiuto alle famiglie, il loro piano prevede sussidi ai coniugi con figli piccoli e l'esenzione dei ticket sanitari per gli anziani con più di 75 anni d’età. «Vogliamo aumentare il reddito disponibile in ogni casa, eliminando l'incertezza nel futuro -ha spiegato più volte Yukio Hatoyama-. Più soldi alle famiglie per rimettere in moto l'economia» era lo slogan continuamente ripetuto.

Non sarà facile per i Democratici soddisfare le enormi aspettative suscitate nel Paese, in un momento in cui la disoccupazione è giunta si suoi massimi storici e diventa sempre più urgente il bisogno di ridurre il peso delle spese pensionistiche che gravano sul bilancio statale. Non sarà facile nemmeno ridimensionare il ruolo degli apparati burocratici, altro pezzo forte della propaganda Democratica. L’eccessivo ingombrante ruolo della burocrazia viene spesso indicato come un ostacolo alle riforme ed alla modernizzazione, ma chiunque abbia tentato di affrontare il problema sinora ha fallito. L’ex-premier liberaldemocratico Junichiro Koizumi aveva tentato di uscire dagli schemi anche rispetto a questo aspetto della realtà nipponica. Nonostante la sua grande popolarità, Koizumi gettò la spugna nel 2006, vittima della guerra che gli facevano i suoi compagni di partito più ancora che gli avversari.


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domenica 30 agosto 2009

Giappone: vincono i Democratici

Voto, svolta in Giappone vincono i Democratici
Il Giappone volta pagina. I Democratici (DpJ) hanno conquistato la maggioranza dei 480 seggi che compongono la Camera Bassa in Giappone, il ramo più potente del parlamento secondo quanto emerge dalle proiezioni diffuse dalla tv pubblica, la Nhk. Il partito Democratico, secondo gli exit poll della Nhk, è accreditato di un pacchetto di seggi pari a 298-329, sul totale dei 480 che compongono la Camera Bassa.

Ai Liberaldemocratici del premier Taro Aso - al potere da 54 anni - andrebbero appena tra gli 84 e i 131 seggi, mentre agli alleati del New Komeito tra 12 e 36. I Socialdemocratici sono accreditati di 4-15 seggi, i Comunisti di 7-18, mentre il Peoplès New Party 3-6.

La maggioranza Democratici, Socialdemocratici e Peoplès New Party potrebbe potenzialmente contare su un blocco di 302-350 seggi sui 480.Per Tokyo una svolta storica.

La valanga era prevista, i liberaldemocratici hanno ammesso la sconfitta.
A un'ora dalla chiusura delle urne e dall'annuncio dei risultati elettorali, il Partito liberaldemocratico giapponese (LDP) si appresta a selezionare un nuovo leader dopo la sconfitta rimediata nelle elezioni politiche, che hanno consegnato una vittoria storica ai Democratici. Lo ha detto il numero due del partito. Nello stesso tempo, ha riferito l'agenzia Kyodo, il capo dei Democratici Yuko Hatoyama, intanto, ha avviato le trattative per la formazione di un nuovo governo.

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sabato 29 agosto 2009

Libero Grassi



Nella lettera, l'imprenditore Libero Grassi ricostruisce il tentativo di estorsione operato ai suoi danni e la denuncia alle autorità fino all'arresto di alcuni ricattatori. Colpisce il fastidio manifestato dalle organizzazioni di categoria di fronte al coraggio e alla coscienza civile di Libero Grassi. La lettera è stata pubblicata dal "Corriere della Sera" il 30/8/1991, il giorno successivo alla sua uccisione.

"Rifiutai di pagare, li descrissi alla polizia"

La "Sigma" è un'azienda sana, a conduzione familiare. Da anni produciamo biancheria da uomo: pigiami, boxer, slip e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100 addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d'affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato proprio l'ottimo stato di salute dell'impresa ad attirare la loro attenzione.
La prima volta mi chiesero i soldi per i "poveri amici carcerati", i "picciotti chiusi all'Ucciardone". Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: "Attento al magazzino", "guardati tuo figlio", "attento a te". Il mio interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli.
Il 10 gennaio 1991 scrissi una lettera al "Giornale di Sicilia" che iniziava così: "Caro estortore...". La mattina successiva qui in fabbrica c'erano dei carabinieri, dieci televisioni e un mucchio di giornalisti. A polizia e carabinieri consegnai 4 chiavi dell'azienda chiedendo loro protezione.
Mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere "ispettori di sanità". Fuori però c'era l'auto della polizia e avevano grande premura. Volevano parlare a tutti i costi con il titolare. Scesi e dissi loro che il titolare riceve solo per appuntamento e al momento era impegnato in una riunione. Se ne andarono. Li descrissi alla polizia e loro si accorsero che altri imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni. Gli esattori del "pizzo", i due che indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo insieme ad un complice.
Una bella soddisfazione per me, ma anche qualche delusione; il presidente provinciale dell'Associazione industriali, Salvatore Cozzo, dichiarò che avevo fatto troppo chiasso. Una "tamurriata" come si dice qui. E questo, detto dal rappresentante della Confindustria palermitana, mi ha ferito. Infatti dovrebbero essere proprio le associazioni a proteggere gli imprenditori. Come? È facile. Si potrebbero fare delle assicurazioni collettive. Così, anche se la mafia minaccia di dar fuoco al magazzino si può rispondere picche. Ma anche a queste mie proposte il direttore dell'Associazione industriali di Palermo, dottor Viola, ha detto no, sostenendo che costerebbe troppo. Non credo però si tratti di un problema finanziario, è necessaria una volontà politica.
L'unico sostegno alla mia azione, a parte le forze di polizia, è venuta dalla Confesercenti palermitana. Devo dire di aver molto apprezzato l'iniziativa SoS Commercio che va nella stessa direzione della mia denuncia. Spero solo che la mia denuncia abbia dimostrato ad altri imprenditori siciliani che ci si può ribellare.
Non ho mai avuto paura ed ora mi sento garantito da ciò che ho fatto. La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo (del 4 aprile 1991) che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la "protezione" ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo infatti è stato legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. Così come la resa delle istituzioni e le collusioni. Proprio ora che qualcosa si stava muovendo per il verso giusto.
Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento; e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che come me hanno invece cercato di ribellarsi?
Ora più che mai le Associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo fronte vanno messe con le spalle al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per spersonalizzare al massimo la vicenda.

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venerdì 28 agosto 2009

Immigrati clandestini. Torturali

ALLUCINANTE
«Immigrati clandestini. Torturali! È legittima difesa».

È questo il disgustoso slogan che appare su alcuni manifesti della Lega Nord di Mirano usati come “profilo” sulla loro pagina di Facebook. A segnalare la cosa è stato Walter Veltroni durante la presentazione del suo nuovo libro «Noi», parlando di fronte ai ragazzi di un istituto scolastico di Misurina, uno dei luoghi dove è ambientato il romanzo.

«Stamattina aprendo Facebook ho visto un'email inviatami da un'amica di Brescia. È la foto che la sezione di Mirano della Lega nord usa come immagine di profilo. È un manifesto con il simbolo della Lega e sotto la scritta 'Immigrati clandestini, torturali! È legittima difesa'. Io credo che questo sia inaccettabile. È contrario ad ogni forma di civiltà, prima ancora che alla nostra storia e alla nostra tradizione di emigranti. Chiederò al ministro degli Interni Maroni di adoperarsi perché venga immediatamente cancellato».

Sul sito, intanto, appaiono anche commenti di militanti leghisti: Alessandro scrive “Son d'accordo!” e lo ripete quattro volte per sottolineare il concetto; i “colleghi” della Lega Nord di Quarto D'Altino si compiacciono anche loro: “Bella questa... ah ah ah”. Solo Giacomo ha la decenza e il coraggio di schierarsi contro e scrive un lapidario “Non sono per niente d'accordo”.

Su Liberazione l'autore della vignetta, Mauro Biani, racconta come è andata. Voleva essere satira, nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe stata presa come bandiera. "Come se nel 1933 avessimo fatto un manifesto finto in cui si proclamava la superiorità della razza italiana con toni alla Guzzanti di "Fascisti su Marte" per essere poi presi sul serio dalle leggi razziali del 1938".


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poster canvas art riproduzione quadri

sabato 22 agosto 2009

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti


Un basso rilievo posto nella Community Church di Boston. Ogni anno vi si tiene una celebrazione per i due anarchici italiani giustiziati


Settantacinque anni fa, la notte del 23 agosto 1927, nel penitenziario di Charlestown (stato del Massachussetts, Usa) venivano bruciati sulla sedia elettrica Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Italiani, immigrati, anarchici. Innocenti. La loro vicenda ha fatto il giro del mondo e le figure di Nick & Bart sono ben presenti nella storia quali icone universali della lotta all'ingiustizia e all'ottusità del potere. Il dramma vissuto dal pescivendolo piemontese Vanzetti e dall'operaio pugliese Sacco ha più connotazioni: il bisogno dell'emigrazione, l'umiliazione razzista, l'emarginazione, l'impegno politico. Che sono ancora di estrema attualità, purtroppo, come dimostra la cronaca d'oggi e, nello specifico lo splendido film realizzato da Giuliano Montaldo nel 1971 che ha riacceso l'attenzione sul “caso” emozionando milioni di persone soprattutto per l'intensa recitazione (ma il termine è riduttivo) di Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla, impegnati a vestire i panni e le anime dei loro corregionali Vanzetti e Sacco. Con loro un'inedita Rosanna Fratello nell'interpretazione di Rosina, moglie di Nick e madre dei loro figli Dante e Ines. A segnare indelebilmente questo cult movie è la colonna sonora musicata da Ennio Morricone e interpretata da una struggente Joan Baez autrice anche dei testi delle canzoni. La Ballata per Sacco e Vanzetti e Her's To You sono entrate nel repertorio internazionale d'autore, così come la ballata di Woody Guthrie Voi anime di Boston, e hanno sicuramente contribuito alla mobilitazione di coscienze negli Usa su un “caso” che in molti (anche in Italia...) avevano frettolosamente archiviato.

Una mobilitazione che ha portato, il 19 luglio del 1977, il governatore del Massachussetts Dukakis alla proclamazione del “giorno commemorativo di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti” per il 23 agosto 1977 dichiarando “che ogni stigma e onta venga per sempre cancellata dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, dai nomi delle loro famiglie e discendenti (...) ed invito il popolo del Massachussetts a sostare nei suoi impegni quotidiani ed a riflettere su quei tragici eventi e da essi trarre il coraggio di impedire alle forze dell'intolleranza, della paura e dell'odio di unirsi ancora per sopraffare la razionalità, la saggezza e l'imparzialità a cui il nostro sistema legale aspira”.

Sembra incredibile ma ci è voluto il “mea culpa” del Massachussetts per convincere l'allora amministrazione comunale di Villafalletto, paese agricolo nella pianura del cuneese, a intitolare una strada a Sacco e Vanzetti (già ricordati a Torremaggiore, paese natale di Nicola Sacco) come richiesto a gran voce dal Comitato formato fra gli altri da Pietro Nenni, Umberto Terracini, Nuto Revelli, Manlio Vineis, Diego Borgna, Giancarlo Ramonda...Una serata memorabile, quella del 25 luglio (data davvero simbolica nell'anniversario della caduta del fascismo) 1977 con il consiglio comunale chiamato ad esprimersi davanti a centinaia di persone che acclamavano per Nick e Bart. Il corso Sacco e Vanzetti è stato inaugurato il 4 settembre del 1977 con la deposizione, anche e finalmente, di una lapide ricordo sulla casa natale di Bartolomeo Vanzetti. “Ma noi non abbiamo mai avuto bisogno di questi tardivi, anche se apprezzati, riconoscimenti ufficiali dell'innocenza di mio fratello e di Nicola: da sempre sappiamo che sono stati vittime dell'ingiustizia del potere”, ci disse Vincenzina Vanzetti, sorella di Tumlin (com'era chiamato Bartolomeo in famiglia), all'indomani della notizia della “riabilitazione” firmata dal governatore. Dukakis invitò ufficialmente a Boston Vincenzina Vanzetti (scomparsa nel '96) che, con Marcello Garino segretario del Comitato Sacco e Vanzetti, incontrò fra gli altri Guido Bono testimone che aveva giurato l'innocenza di Nick e Bart ma che, come molti altri, non era stato creduto dai giudici. “Furono giorni di grande commozione”, ricorda oggi Garino.

Vincenzina aveva cinque anni quando Tumlin, nel 1908, partì per la “Merica”. Un ricordo sfuocato nel tempo, ma fortissimo, alimentato dalla fitta corrispondenza che il fratello ha sempre tenuto con il padre e le sorelle: gente semplice, di provincia, di grande onestà intellettuale che, travolta da una tragedia di proporzioni internazionali, è sempre rimasta al proprio posto (fascismo e post-fascismo, ignoranza e malevolenza) a testimoniare l'orgoglio di una scelta, l'ingiustizia di un patimento infinito eppure una forza granitica. Nel canterano di casa, a Cuneo, Vincenzina teneva ordinate le fotografie e lettere mandate da Tumlin: pezzi di carta vergati con l'inchiostro appena sbiadito che raccontano di tristezze, di povertà e di speranze nelle cucine di New York a far da lavapiatti, nelle baracche dei cantieri a far da manovale, a tirare il carretto del pesce a Playmouth, nell'angoscia delle celle a Charlestown. Un carteggio di immenso valore storico, umano, politico (affidato da Vincenzina all'Istituto storico della Resistenza di Cuneo) che ci restituisce pienamente la statura di Tumlin. Ed è la lettera scritta al padre, Giovanni Battista, per annunciare la sua carcerazione che ha ispirato Joan Baez la Ballata per Sacco e Vanzetti.

Scrive Bartolomeo: “Carissimo Padre, ho frenato insino ad oggi il desiderio di scriverti, perché ho sempre sperato di potere, da un giorno all'altro, darti buone notizie. Ma le cose continuano ad andare male, per cui io mi son deciso a scriverti. So quanto dolorosa sia per te e per i cari tutti questa contingenza di mia vita ed è appunto questo pensiero che più mi fa soffrire. Vi esorto ad essere forti come io lo sono e perdonatemi il dolore che, involontariamente e senza colpa, vi cagiono (...) Io sono innocente e a dispetto di tutto sto bene e fò il possibile per conservarmi in salute (...) Non tenere celato il mio arresto. No, non tacete ma gridate dai tetti che il silenzio sarebbe vergogna”.

Bartolomeo era partito da Villafalletto per la “Merica” il 9 giugno del 1908, pochi giorni prima di compiere vent'anni. Aveva alle spalle già una storia di emigrazione avendo lavorato a Cuneo, Cavour, Torino come apprendista pasticciere entrando in contatto con garzoni di idee socialiste. A vent'anni era rientrato al paese per lavorare nel caffè del padre, ma la morte della mamma, Giovanna, cui era legatissimo, sconvolse Tumlin che, straziato, decise di lasciare tutto e di partire per la “Merica”.

I mille mestieri e patimenti portano Vanzetti, che legge avidamente libri e giornali, a militare, a Plymouth, nel gruppo anarchico “Cronaca sovversiva” fondato da Luigi Galleani: nel 1917, per sfuggire all'arruolamento, si trasferisce in Messico dove stringe amicizia con Nicola Sacco anche lui militante dello stesso gruppo a Milford. I due divengono inseparabili. Bartolomeo ha l'età di Sabino, il fratello con il quale Nicola è emigrato da Torremaggiore nello stesso anno di Vanzetti, il 1908. rientrati negli Usa i due riprendono a frequentare i circoli anarchici che sono decimati dall'onda repressiva ordinata dal presidente Woodrow Wilson contro i “sovversivi”. Ed è proprio dopo una riunione che Nick & Bart vengono arrestati su un tram fra Brockton e Bridgwater il 5 maggio del 1920. Bloccati da agenti in borghese (forse informati da una “soffiata”) i due italiani finiscono dentro. Hanno nascosto nei loro cappotti armi e volantini anarchici. Tre giorni dopo il procuratore legale Gunn Katzman, arrivato da Boston, contesta a Sacco e Vanzetti i reati di duplice omicidio e grassazione accusandoli di aver organizzato e realizzato una rapina il 15 aprile precedente a Sounth Baintree, sobborgo di Boston, ai danni del calzaturificio “Slater and Morrill” uccidendo il cassiere della ditta e una guardia giurata a colpi di pistola. E' l'inizio di un “processo di stato” che porterà all'omicidio, sulla sedia elettrica, di Nicola e Bartolomeo, nonostante contro di loro non ci sia alcuna prova certa ma, anzi, numerose testimonianze di innocenza e addirittura la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros che ammette di aver preso parte alla sanguinosa rapina giurando che Sacco e Vanzetti non si erano mai visti. Naturalmente non è creduto. Anni dopo il gangster italo-americano Vincent Teresa nella sua autobiografia Piombo nei dadi ha scritto che gli autori della rapina erano stati i fratelli Morelli e che uno di questi, Butsey, gli aveva detto: “Quei due imbecilli ci andarono di mezzo. Questo ti mostra cos'è la giustizia!”.

I sette lunghi anni nel carcere di Charlestown vedono una grande mobilitazione in favore di Nick & Bart, con azioni legali, campagne stampa, comitati, appelli (persino di Mussolini): tutto inutile. Nicola Sacco, 36 anni, viene fulminato da una scarica elettrica alle ore 0,19: sette minuti dopo è la volta di Bartolomeo Vanzetti, 39 anni. E' il 23 agosto 1927. In questi ultimi giorni di vita dei due compagni dall'Italia la sorella di Tumlin, Luigina, assistita da immigrati italiani e anarchici. E' lei a riportare in patria le ceneri di Nick e Bart unite indissolubilmente fra di loro.

Poteva essere questa la fine di una tragica storia, ma così non è stato come già aveva dichiarato al suo accusatore Bartolomeo Vanzetti nella sua celebre requisitoria, magistralmente resa da Volontà nel film di Montaldo, guardando in faccia i giurati: “Mai vivendo l'intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini...Il fatto che ci tolgano la vita, la vita di un buon operaio e di un povero venditore ambulante di pesce...è tutto! Questo momento è nostro quest'agonia è la nostra vittoria!”.

Alberto Gedda – L'UNITA' – 21/08/2002


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Le parole e le C.a.s.e.

Le parole e le C.a.s.e.
Filippo Tronca

Ripubblico, un articolo illuminante sulla ricostruzione di L'Aquila e su come la città è uscita dal G8. Nelle tende fa un caldo boia e ci sono centinaia di malori e ricoveri. «I primi appartamenti – assicura il Presidente Ricostruttore – saranno consegnati a metà settembre», con tanto di tivù al plasma. Ma saranno solo per 1500 sfollati

Un cronista dall’aria assai importante chiede in sala stampa, in occasione dell’ennesima visita nel cratere del Cavaliere e presidente del consiglio Silvio Berlusconi: «Ma c’è qualcuno che vive ancora dentro le tende?». Un suo collega-sfollato si avvale della facoltà di non rispondere.
Il terremoto aquilano, il più ripreso e fotografato nella storia, diventa nella cruciale fase della ricostruzione, una equivoca fiction televisiva. Con il rischio che tutti i problemi saranno risolti, e tutti gli sfollati non saranno più tali, allorchè il 50 per cento più uno dei telespettatori sarà convinto di ciò.
Apoteosi mediatica è stata il vertice del G8, che sarà ricordato per i vaghi impegni di circostanza sul come impedire che il pianeta vada a rotoli. E per la lacrimuccia di Carla Bruni tra le macerie, per la granita di patate e l’assoluto di peperone arrosto cucinati da un grande chef abruzzese, per le first lady che fanno il tagadà sopra al tappeto che simula una scossa sismica, per la tenda beduina dove ha dormito Gheddafi, meritandosi la simpatia degli aquilani.
Interessa meno sapere che la Guardia di finanza, sede del vertice e trasformata con svariati milioni di euro in una caserma a cinque stelle, è di proprietà, e tale resterà, delle banche Finnat, Imi, Barclays Capital, Royal Bank of Scotland e Lehman Brothers, prime beneficiarie, anche in occasione di questa crisi, di aiuti umanitari. Molti camerieri del G8 hanno poi lavorato in nero, e le hostess, tra cui molte sfollate, somministrate da un’agenzia di lavoro interinale, hanno vivamente protestato perché costrette a lavorare 14 ore di fila per 75 euro.
«Vedrete cose che voi terremotati non avete mai visto», ha declamato il Presidente Ricostruttore, davanti al silente parterre dei giornalisti nell’ennesima conferenza stampa sulle magnifiche sorti della ricostruzione.
Nel cratere reale però gran parte delle macerie sono li dov’erano all’alba del 6 aprile, perché il Comune ha affidato senza gara un appalto da 50 milioni per la rimozione ad una ditta senza requisiti. E’ esploso uno scandalo, la magistratura indaga, le macerie attendono con compostezza. Ventimila sfollati, di cui il 70 per cento anziani, vivono da quattro mesi sotto le tende. Altri 29 mila sono in villeggiatura coatta in case private e alberghi della costa, che grazie al rimborso quotidiano di 50 euro a persona hanno salvato la stagione turistica.
Nelle tende fa un caldo boia e sono centinaia i casi di malori e ricoveri. «Ci manca solo una biblica invasione delle cavallette», scherzava un buontempone per sdrammatizzare. Detto fatto. Milioni di cavallette assediano le tendopoli di Aquila est e mentre gli sfollati lottano armati di scopa contro gli indesiderati ospiti, le banche gli ritirano dal conto la rata del mutuo, in barba alla sospensione disposta, in modo assai vago, nel decreto Abruzzo.
Il cratere somiglia sempre più ad una piscina dove nuotano squali e su cui volteggiano avvoltoi. I prezzi delle case e dei locali commerciali agibili sono infatti triplicati. «E’ la legge della domanda e dell’offerta», spiegano i possidenti locali, in vena di indossare i panni degli economisti navigati. E più che della mano invisibile del mercato si dovrebbe parlare di un visibile calcio nel sedere di molti aquilani.
«Alla guerra ci si va con chi ti vende le armi, al terremoto con chi ti ricostruisce le case», sentenzia uno sfollato che la guerra l’ha fatta per davvero. Intanto il Presidente tesse le lodi dei pilastri antisismici, che ricordano tozze colonne di un tempio, e che reggeranno i prefabbricati del piano C.a.s.e. «I primi appartamenti – assicura il Ricostruttore – saranno consegnati a metà settembre», con tanto di tivù al plasma. Però saranno solo per 1500 sfollati, il dieci o dodici per cento del totale. Quanto basta per un trionfale taglio del nastro a reti unificate. Le altre casette saranno consegnate, «anche gratis», si legge nel Decreto, in totale a 12-14mila sfollati.
Mancano comunque all’appello 10 mila sfollati con case distrutte, e altre migliaia che devono avviare complicati lavori di ristrutturazione. Passeranno l’inverno non si è ancora capito dove. Ad essi si aggiungono poi gli studenti e i cittadini non residenti, che nessuno calcola.
Inevitabile che nelle tendopoli già si litighi per chi andrà a vivere per primo nelle C.a.s.e.. Ma questa sarà una bega del sindaco Massimo Cialente, a cui spetta l’assegnazione degli alloggi.
Le C.a.s.e. rappresentano però il fare che si vede e si tocca con mano. E chi le contesta rischia di essere preso per matto. La Protezione civile non si è fatta perciò problemi a pubblicare sul suo giornalino un articolo in cui i comitati dicono che questi quartieri diventeranno ghetti e stravolgeranno il tessuto urbano, che occorre una fase intermedia per progettare in modo partecipato «una città laboratorio della terza rivoluzione industriale».
Per non essere presi per matti, occorre dare i numeri. Finora per il piano C.a.s.e. sono stati spesi 425 milioni di euro, più 37 milioni per gli arredi, più i soldi per espropri, servizi e progettazione. In totale 700 milioni di euro, ovvero ciascuno dei 4 mila appartamenti costerà la stratosferica cifra di 170 mila euro, pari a circa 2.700 euro a metro quadro.
Per fare un confronto, le case di legno che un’azienda aquilana sta costruendo per i propri dipendenti, costeranno solo 35mila euro l’una; quelle che ospiteranno gli abitanti di Onna avranno un costo unitario di 55mila euro.
Con 700 milioni si potevano perciò collocare 14mila tra case di legno e moderni container, confortevoli e provvisori, per ospitare già in autunno oltre 40 mila sfollati. E si potevano usare le decine di milioni di euro che saranno spesi per tenere altri mesi gli sfollati negli alberghi, per la ricostruzione della città e per il sostegno al reddito.
In uno dei campi, un futurologo terremotato riunisce su un tavolo ritagli di giornale dove si riferisce che non sarà finanziata la ricostruzione delle seconde case di chi già riceve i contribuiti per ricostruire la prima; poco oltre, si legge che160 lavoratori della Technolabs sono ad un passo dal licenziamento e che la Transcom se ne va e 400 sfollati resteranno in mezzo alla strada. La Coop chiude, la Tils è in crisi, mentre è incerto il futuro anche per 300 dipendenti dell’Alenia. In compenso, il Premier verrà in vacanza in città, o forse si comprerà una casa [senza puntini] per «sorvegliare i lavori di ricostruzione».
Sono questi i fotogrammi di un’ipotetica fiction intitolata «L.a.q.u.i.l.a. tornerà a volare». Scena madre: migliaia di terremotati, uno dopo l’altro, salgono sul treno con valigie e portatili, salutano col fazzoletto ed emigrano. Dopo aver venduto la casa del centro storico ai grandi immobiliaristi, pronti a sborsare 2 mila euro a metro quadro, per case che prima ne valevano anche 8 mila.
Primo finale, 6 aprile 2017: i turisti a bordo della metropolitana di superficie, finalmente completata con i fondi del post-terremoto, fotografano i ruderi del centro. Nel container del Comune si litiga per le nomine al cda dell’Ente Ricostruzione. Gli abitanti del ghetto antisismico di Preturo giocano sul campo da bocce più lungo d’Europa, la pista dell’aeroporto del G8.
Secondo finale, 6 aprile 2021: L’Aquila è diventata la Porto Rotondo degli Appennini, città satellite a cinque stelle della capitale, con cui è collegata da un treno super-veloce. Carla Bruni, questa volta sorridente, passeggia tra i palazzi storici e gli innesti urbani a firma di note archi-star, a braccetto del Commissario d’Italia Guido Bertolaso. Nessuna traccia però di tanti terremotati di basso ceto sociale che oggi dormono e sperano sotto le tende. Loro, nel casting della ricostruzione, non sono stati contemplati.

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venerdì 21 agosto 2009

Un ponte tra due mafie

Un ponte tra due mafie


L'intreccio di interessi pubblici e privati, la longa manus delle mafie locali, la devastazione del paesaggio: a migliaia in piazza per dire no a un mostro che fagociterà miliardi della comunità

Scritto da
Gianluca Ursini


Messina, 8 agosto 2009. Il popolo del ‘No al Ponte' sullo Stretto si ritrova dopo i due anni di tregua concessi dal refrain di R. Prodi: ‘'Bamboli non c'è una lira!" Una italia più tristana rispetto a quella burlesque di Papi Silvio, ma con i piedi per terra.

Ottomila persone (per gli organizzatori) tra siciliani, calabresi e altre realtà solidali alla lotta, come le comunità del No Tav o Wwf Legambiente e altre associazioni ecologiste, hanno invaso i viali dell'Araba fenice rinata dopo lo tsunami del 1908; immancabilmente, per la Questura hanno sfilato in tremila. Quel che conta è che sia ripartita, oltre alle minacce berlusconiane ("useremo l'esercito" ha promesso cupo il ministro Claudio Scajola,) la rete di chi non chiede più investimenti pubblici-monstre ma "investimenti locali di prossimità: compatibili e immediati, come la metropolitana del mare qui sullo Stretto e la messa in sicurezza delle due sponde dal rischio antisismico; costerebbero più del ponte", spiega Antonello Mangano, autore con Gigi Sturniolo e Peppe Marra del libro ‘'Ponte sullo Stretto e mucche da mungere".

Per voi tre autori ci sono sette buoni motivi per essere ‘contro' e uno interessa da vicino PeaceReporter
"Fino a pochi mesi fa si diceva che l'investimento pubblico rappresentava il peggiore dei mali, ora è essenziale per socializzare le perdite - la crisi la paghiamo noi - mentre le mega opere basate sulla partnership pubblico-privato diventano delle vacche da mungere che portano ai privati denaro pubblico. La tesi del nostro libro è che tra una diga in Lesotho, il Ponte, la privatizzazione dell'acqua in Calabria, le razioni di pollo per i soldati in Afghanistan, i rifiuti accumulati a Napoli e un hotel extralusso a Khartum con vista sulle baracche in latta, non esiste nessuna differenza".

Mangano è un blogger con venature da sociologo, Marra un attivista ecologista al quale potreste chiedere ogni particolare su come la multinazionale francese ‘Veolia' abbia trovato l'America in Calabria, gestendo i tesori locali: acqua e rifiuti; Sturniolo ha formazione economica e la ‘fissa' marxista di trovare a tutto motivazioni economiche; nel libro si propone un'analisi, economica e politica, che parte dal presupposto degli ‘interessi discordanti' e del loro riequilibrio. Dietro la artificialmente indotta esigenza del Ponte, ci sono interessi molto forti: movimento terra, betoniere delle ‘ndrine che impastano calcestruzzo a buon mercato come quello sbriciolatosi per la scossa dell'Aquila, e movimento inerti. Le cosche della Piana di Gioja e i picciotti catanesi ci hanno prosperato per anni, costruendo autostrade e seconde ‘town' ai presidenti del Consiglio: dietro le reali esigenze del ‘No Ponte', non si riescono ad aggregare movimenti di opinione. Non si riesce ad impedire che si diano poteri generali al commissario straordinario Piero Ciucci per ‘'accelerare i lavori'' e traformare lo Stretto nei prossimi sette anni (ammesso che ce la facciano...) in una miriade di svincoli, curve e sopraelevate. Piccola nota: Ciucci il commissario straordinario, è anche a capo dell'Anas, che detiene la quota dell'82 percento della società ‘Stretto di Messina' incaricata di delineare i termini tecnici dell'opera. A metterlo in atto sarà Impregilo, (gruppo Romiti) che si è aggiudicata i lavori. Gli stessi che si erano aggiudicati nel '90 l'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio. Era ancora premier Bettino Craxi e ministro ai Lavori pubblici un democristiano calabrese, Riccardo Misasi.
Anas e Impregilo in 17 anni non hanno completato quello che avevano promesso di chiudere in cinque (anche il ministro berlusconiano Piero Lunardi nel 2001 aveva indidcato come fine lavori per la Sa-Rc il 2005), e i costi sono lievitati di 17 volte. C'è da scommetterci che riusciranno a ultimare una opera-monstre in 7 anni...

Torniamo a noi. Se hanno fallito, soprattuto nel vigilare sulle infiltrazioni mafiose sulla Salerno- Reggio, figurarsi per il ponte...
... che unirà due cosche, non due coste..."

Come si attua la fregatura?
Negli anni ‘70 sembrava si fosse assistito ad un ritorno del pubblico: shock petrolifero, economie assistite, misure keynesiane; poi gli anni '80 reaganiani dell'iperliberismo. Ora dopo lo shock 11 settembre ma soprattutto dopo la caduta del "Muro di Wall Street" è arrivato il momento della PPP (Partnership pubblico - privato). Cosi le perdite saranno collettivizzate e i guadagni privatizzati; è lo stesso discorso per il quale chi fornisce (vedi Halliburton) le razioni ai soldati in Iraq ha da guadagnare tanto quanto coloro che vincono la commessa per la diga in Lesotho che i lesothiani non hanno chiesto e che non finanzieranno, ma che si ritroverranno grazie a fondi Onu. O per il Ponte o per lo sfruttamento delle risorse, come potrebbe essere il caso dei rifiuti, mentre il loro sfruttamento viene lasciato (Impregilo, sempre lei, ha rinunciato a costruire i termovalorizzatori) in mano alle ecomafie o tout court ai casalesi.

Mi ripete il settimo comandamento del ‘No al Ponte'?
Le opere PPP sono utili ai generali e ai loro eserciti, all'industria della guerra, altro ottimo investimento richiesto dal pubblico e attuato dai privati. Per questo Matteoli (Lavori pubblici) e Scajola hanno promesso di usare l'esercito contro le ‘'sparute minoranze che si opporranno al Ponte''...

Quali sono gli altri punti fermi del vostro comitato?
No al partito del cemento. No allo strapotere economico delle mafie. No alla finta promessa di occupazione (40mila posti di lavoro per il governo; ma quando i cantieri saranno finiti?). No alle finte promesse di sviluppo..

Cosa comporta la commistione pubblico-privato?
Lo Stato è rimasto stazione appaltante ed assicura alle imprese private profitti al riparo dalla concorrenza, rischi di mercato, verifiche di efficienza. L'arretramento dello Stato ha significato riduzione di regole e controlli, discrezionalità dei "General Contractor" nell'assegnazione di subappalti o nella gestione privatistica di voci di bilancio, con perdita di rilevanza penale di comportamenti dannosi per la società. Ha significato nei fatti maggiore spazio per la criminalità, l'annullamento dei diritti dei lavoratori, l'allontanamento di imprese che non accettano tavolini di spartizione.

Il titolo sarebbe ‘'Attenti a quei due!"
Sappiamo cos'è la Salerno- Reggio; non tutti sanno che i responsabili sono gli stessi che devono fare il Ponte: Anas e Impregilo. Quanto hanno vigilato sulle infiltrazioni mafiose?

Per Piero Ciucci, nel 2007, la Salerno-Reggio era una ‘'autostrada pienamente sotto controllo''. Per questa strada "pienamente sotto controllo" l'intervento della polizia è stato richiesto in diverse occasioni, con mandati di catttura dei giudici: si inizia con l'operazione Tamburo (2002), che riguarda il tratto da Castrovillari a Rogliano; si prosegue con l'operazione della Dia contro la camorra (aprile 2005) per la realizzazione degli svincoli di Castellammare di Stabia e Scafati e dei caselli di Nocera Inferiore e Cava dei Tirreni; ancora l'operazione Arca (luglio 2007), chiusa esattamente due anni dopo con otto condanne e 44 assoluzioni per una forma di pizzo che prevedeva manodopera e calcestruzzo a prezzi gonfiati tra gli svincoli di Mileto e Rosarno-Gioia Tauro. Nel febbraio 2009, l'operazione "Autostrada" riguardava ancora il tratto sotto l'egemonia del clan Mancuso (svincolo di Mileto): pizzo pari all'1 per cento degli importo e materiali scadenti, giudicati però adeguati dai controlli eseguiti dall`Anas

Le mafie sempre più ricche; il territorio devastato; i costi in capo alla comunità e profitti astronomici per Impregilo e per chi gestirà il pedaggio dell'opera finita; una colata di cemento seppellirà le due città dello Stretto per le opere di adeguamento ad una tensostruttura mostruosa sospesa a un centinaio di metri d'altezza; la curva per portare ad altezza Ponte treni e auto comincerà a un chilometro del mare e descriverà quasi una inversione a U: la madre di tutte le sopraelevate che hanno deturpato le nostre città.
Ma c'è un motivo che sta sopra a tutti, il più evidente e il più logico. Lo forniscono gli ingegneri, come è loro prassi, molto razionalmente: con il progetto attuale se i venti sorpassano i 10 nodi, la struttura andrebbe chiusa. Si tornerebbe a traversare in barca. Nella regione dello Stretto, una delle più ventose d'Italia (chiedere ai wind e kite surfer che arrivano fin dal Friuli o dalla Slovenia per volare su quelle acque) almeno per un centinaio di giorni l'anno si supera questa velocità. La Grande opera del Governo Berlusconi sarebbe inservibile per un terzo dell'anno.

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Truffe Affitti: Stai Attento Su Internet!




Truffe Affitti: Stai Attento Su Internet!

Tu, tu, tu. Sono le 10.30. Tu, tu, tu. Guardo l’orologio. Le 12.00. Perché non risponde? Tu, tu, tu. Niente da fare, è il terzo giorno che provo a chiamarlo inutilmente. Leggo meglio l’annuncio. Lo provo a contattare via e-mail.

Se ha realmente intenzione di affittare il suo monolocale, mi risponderà. Non ho nemmeno finito di inviare l’e-mail, che ricevo subito una risposta. Buongiorno, il mio nome è Charles Sullivan e io sono un chirurgo pensionato di 65 anni. Tempo perso, è una truffa.



Devo confessarlo, mi sono divertito. Sul serio, mi sono divertito a cercare per ore ed ore sulle pagine di Vivastreet e Kijiji l’appartamento perfetto da prendere in affitto a Milano. Alla fine, l’ho trovato. Grazie ad Internet, certamente.

Nelle mie ricerche virtuali, tuttavia, non pochi truffatori hanno cercato di raggirarmi. Se anche tu stai cercando un appartamento o una stanza da prendere in affitto consultando gli annunci on-line, stai attento. Potresti incappare in qualche truffa e perdere un sacco di soldi. Ti racconto la mia esperienza.

Le 3 di notte. E’ questo. Sì, è questo il monolocale che cercavo. E’ perfetto: vicino al mio ufficio e alla Bocconi, che frequenterò da Settembre, completamente ristrutturato e nel budget. La mattina seguente, alzo la cornetta del telefono e provo a chiamare il proprietario per programmare una visita all’appartamento. Non risponde nessuno.

Per più di tre giorni consecutivi e in diverse ore del giorno, ho provato a richiamare il presunto proprietario senza alcun risultato. Questo fatto è già indicativo. Chi mette un annuncio in Rete per affittare un appartamento, difficilmente sarà irraggiungibile per così tanto tempo.

Quando mi sono reso conto che si trattava di una truffa, ho fatto una piccola indagine sul numero di telefono inserito nell’annuncio. Ho scoperto che esso appartiene ad un centro di bellezza chiuso per ferie. Così ho capito. Il truffatore ha inserito un numero di telefono esistente per dare maggiore credibilità al suo annuncio truffaldino.

Tuttavia, dato che nessuno avrebbe mai risposto alle chiamate, gli interessati all’appartamento lo avrebbero contattato alla fine via e-mail. E così ho fatto. La risposta alla mia e-mail è stata pressoché immediata. Quella ricevuta è una e-mail impersonale e “confezionata”.

Contattando lo stesso truffatore da un altro indirizzo e-mail, ho ricevuto, infatti, la stessa identica riposta. A detta dell’e-mail, piuttosto assurda e poco convincente, l’appartamento appartiene ad un sessantacinquenne scozzese.

Viene sottolineato il prezzo conveniente: alla modica cifra di 700 euro al mese, ti porti a casa un monolocale ristrutturato e tutte le utenze pagate. Se una cosa è troppo bella per essere vera probabilmente non lo è. Quella cifra è troppo bassa rispetto agli altri monolocali nella stessa zona di Milano. Questo è stato un primo campanello di allarme.

Buon giorno,

il mio nome è Charles Sullivan e io sono un chirurgo pensionato di 65 anni. Ho ereditato l’appartamento a Via #Nome della via# - 20141 Milano, da mia sorella Marry Sullivan nel 2007, ma non ho mai vissuto in questo appartamento, perché ho vissuto a Glasgow, in Scozia nel corso degli ultimi 30 anni. Ho cercato di vendere l’appartamento, ma non ho potuto ottenere il prezzo che sto cercando così ho deciso insieme a mia moglie e mia figlia di affittarlo a qualche persone piacevole.
L’appartamento è esattamente come si sta vedendo nelle foto, completamente arredato, ma ho la possibilità di inviare tutti i miei mobili in un deposito se Lei desidera portare il proprio (senza costi aggiuntivi). Il canone di affitto per 1 mese è di 700 EURO (per l’intero appartamento) compreso tutti i servizi di utenze (acqua, elettricità, Internet, cavo TV, parcheggio, ecc.)
Il periodo di affitto minimo è di 2 mesi.

Un secondo campanello d’allarme è costituto dalla storia presentata. Il presunto proprietario, o per meglio dire il truffatore, ci informa che le chiavi dell’appartamento sono in Scozia. Dovrei andare io a recuperarle oppure me le farà recapitare attraverso una presunta agenzia britannica.

È possibile spostarsi nel appartamento nello stesso giorno in cui si ricevono le chiavi. L’unico problema è che non possiamo lasciare Scozia perché siamo troppo vecchi per venire e mia figlia non può lasciare il suo lavoro. Forse avete la possibilità di venire qui a prendere le chiavi e in questo modo siamo in grado di conoscersi meglio.
Se Lei non puo venire, non c’è bisogno di preoccuparsi, ho fatto tutte le disposizioni di affittare l’appartamento da qui, con una agenzia britannica che si occuperà delle attività per me (senza costi aggiuntivi per voi).
Se non siamo in grado di incontrarci faccia a faccia è molto importante per me e mia moglie a vedere le persone che affiterano l’appartamento almeno con una webcam.
Quindi, per favore, aggiunga il indirizzo Messangger #contatto messenger# per una video conferenza. Inoltre potete darmi il vostro numero di telefono così mia figlia puo chiamarvi, se volete discutere per telefono.

Cordiali saluti,

Charles Sullivan

Mi chiede di aggiungerlo su MSN Messenger per scambiare quattro chiacchiere. Lo faccio. Lo trovo subito online. Mi chiede di effettuare una videoconferenza. Non posso, non ho webcam. Mi presento e gli spiego che denuncio i truffatori sul mio sito Internet. Imperterrito, sposto il discorso sulle chiavi dell’appartamento.

Salvatore : Non riuscirei a venire a Glasgow per le chiavi.
Charles: nessun problema se non puoi venire, perché ho una società britannica che può consegnare le chiavi e si prendono cura del contratto di affitto, ma ovviamente abbiamo bisogno di alcune garanzie
Salvatore : Quali sono queste garanzie?
Charles: ora vi spiego tutta la procedura utilizzata dalla società in questione, ok?
Salvatore : ok, grazie
Charles: se siamo d’accordo sul prezzo di affitto lascero le chiavi presso la società
Charles: dopo che ricevera le informazioni sul trasporto, deve fare un deposito di 2 mesi con la società di trasporto per avviare la consegna
Charles: questa è una garanzia in modo che io posso avere la certezza che siete davvero interessati affittare e avete i soldi per farlo
Charles: e se si mantiene l’appartamento, tale importo rappresenta i primi 2 mesi di affitto
Charles: dopo che la società controlla il vostro pagamento, avvia il processo di trasporto e Lei ricevera le chiavi entro 1-2 giorni
Charles: dopo aver ricevuto le chiavi avrà 5 giorni a disposizione per controllare l’appartamento per decidere se affitarlo oppure no
Charles: se Lei non accetta di affittare il mio appartamento, la società Le darà il vostro denaro indietro nello stesso giorno, non si perde nulla!
Charles: se accetta di affittare l’appartamento, firmerà tutti i documenti e l’operazione è terminata

Il truffatore vorrebbe che mi facessi fregare da lui. A detta sua, dovrei versargli 1400 euro senza firmare alcun contratto per ricevere (si, come no!) le chiavi per vedere l’appartamento. Se l’appartamento non dovesse piacermi, potrò restituirgli le chiavi e avere i soldi indietro.

Ma non è più semplice vedere prima l’appartamento e poi, firmato un contratto, pagargli le due mensilità? No, non è possibile. La truffa consiste proprio in questo: inviati i soldi, il truffatore sparirà senza inviarci la chiave dell’appartamento “affittato”, che probabilmente nemmeno esiste.

Salvatore : E’ possibile vedere l’appartamento ora?
Charles: se Lei puo fare il deposito oggi le chiavi le ricevere dentro di 2 giorni
Salvatore : ma io prima voglio vedere l’appartamento
Charles: capisco
Charles: in ogni caso ho anche io bisogno delle mie garanzie, ma in finale, lei ottiene un buon appartamento in una zona piacevole ad un prezzo molto buono, come gia lo sa
Salvatore : si, ma prima vorrei vedere l’appartamento. Se mi piace, possiamo fare il contratto ed io posso pagarle anche un anno intero di affitto in un’unica soluzione.

Io ho capito subito che si trattava di una truffa e non mi sono fatto ingannare. Non si sono accorti di questa tipologia di truffa molti dei miei lettori, che hanno versato a truffatori del genere delle caparre piuttosto elevate, anche sull’ordine di qualche migliaia di euro.

Una lettrice che cercava una stanza in affitto a Berlino è stata truffata in questo modo. Dopo aver intascato 300 euro della caparra, il truffatore è sparito, lasciando la ragazza in mezzo alla strada.


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giovedì 20 agosto 2009

Burkini in piscina, i bagnanti protestano


Burkini al mare, i bagnanti protestano



Durante la Belle Epoque a Cannes fino ai primi del '900,
 le donne si bagnavano come oggi si bagnano le islamiche.
Ricordo negli anni '70 sempre a Cannes i gendarmi multavano
 le signore che in spiaggia portavano il bikini (multarono anche Brigitte Bardot, nella foto) ...
Insomma ho l'impressione che stiamo trasformando in guerra di religione una semplice manifestazione di costume da bagno fuori moda...

MA FINO A 50 ANNI FA ANCHE IN EUROPA IL COSTUME DA BAGNO ERA COSì









LE DONNE DI ALTRA CULTURA FANNO IL BAGNO AL MARE IN BURKINI ma non ci soffermiamo sulla nostra depravazione pubblicitaria dove la donna viene usata come l'oggetto del desiderio. STRANA GENTE GLI OCCIDENTALI, ma di che valori primari parliamo.FINO A 30 ANNI FA ANCHE IN EUROPA IL COSTUME DA BAGNO ERA COSì




Burkini in piscina, i bagnanti protestano


Si chiama burkini, l’ha lanciato una stilista di Sydney dal nome arabo e cognome italiano, Aheda Zanetti, e sta diventando il casus belli di Ferragosto, più del divieto dei matrimoni con clandestini e delle inenarrabili condizioni dei detenuti nei Cie o nelle patrie galere. Ovvio, dato che si tratta di un oggetto balneare, un costume per donne musulmane che copre tutto il corpo, esclusi viso, mani e piedi, e che rischia, però, di non essere «balneabile». A Verona, la città che ha eletto con il 61% di preferenze un sindaco incriminato e poi definitivamente condannato per propaganda razzista, il direttore del centro natatorio comunale «Santini» ha chiesto a una donna in burkini di comunicargli la composizione del tessuto del suo costume, che potrebbe non essere «regolare».
Secondo le dichiarazioni dello stesso direttore, sarebbero state le lamentele di alcune madri, i cui bambini si sarebbero spaventati alla vista di una bagnante così coperta, a convincerlo ad intervenire. La signora in burkini aveva già fatto il bagno in quella piscina, dove accompagnava i suoi tre figli, almeno altre due volte prima della fatidica domanda. Della donna e dei suoi tre bambini si sa soltanto che non sono più tornati al centro sportivo: «E questo ci dispiace molto – dice Silva Polo, responsabile delle piscine comunali – anche perché, se la signora mi avesse chiamato, le avrei spiegato che non c’è nessun problema. Solo una situazione nuova che ha creato un po’ di scompiglio, le novità sono prese come una stranezza». Nessuna discriminazione, quindi, e nessuna limitazione, solo «la preoccupazione delle mamme per i loro bambini. Tra l’altro – sottolinea la dirigente comunale – la vicenda risale almeno a un paio di mesi fa e non capisco perché il caso sia scoppiato proprio ora».
La spiegazione non è difficile, basta pensare a quanto accaduto qualche giorno fa a Emerainville, nella banlieue della democraticissima Parigi, dove un bagnino ha vietato a Carole, trentacinquenne convertita all’Islam, e dunque in burkini, di immergersi in acqua. Il caso veronese creerebbe un «illustre» precedente. Ma, se in città ferve la «discussione tecnica» su quanti batteri siano imputabili al burkini e quanti alle braghette da bagno dei ragazzini che si buttano in piscina dopo aver magari giocato a pallone, sulla rete, nei blog e nelle mailing list, il dibattito è serratissimo. Qui i partiti sono tanti (e confusi): c’è chi se la prende con le «mamme» della piscina veronese, accusate di essere razziste e xenofobe perché, invece di spiegare ai figli le differenze fra culture, protestano per il burkini, c’è chi inneggia alla libertà assoluta, topless o burkini che differenza fa, basta che le regole igieniche siano salve, chi vuole usare l’«occhio per occhio, dente per dente», se le donne occidentali non possono fare il bagno in bikini a Dubai, neanche le musulmane possono farlo qui in burkini, chi si indigna, le femministe che se la prendono con la «falsa tolleranza» di chi ammette veli e burkini, simbolo della sottomissione delle donne ai maschi della famiglia, chi è furibondo, i libertari, che denunciano i pericoli della longa manus delle religioni sulla vita della gente, e i leghisti, che temono «l’islamizzazione» in un futuro molto prossimo.
Forse il pragmatico equilibrio anglosassone potrebbe rivelarsi il male minore. Al centro sportivo di Croydon ci sono speciali sessioni natatorie per musulmani. In giorni e ore stabilite uomini e donne nuotano separati, i maschi in costume al ginocchio, le donne con il burkini. Obbligatorio per tutte, anche per le inglesi. Il che ovviamente ha scatenato, anche là, una ridda di polemiche sull’integrazione e sulla presunta «islamizzazione» della società inglese.


Siccome vedo che tutti sono convinti che tutte le donne dei paesi arabi portino il burka ecco uno schema che spega che solo in pochissimi paesi le donne sono in gran maggioranza coperte , nella maggioranza dei paesi hanno solo un foulard in testa in altri , la metà delle donne copre solo i capelli .

Il velo è illegale in Italia? 
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martedì 18 agosto 2009

FERNANDA PIVANO




Con molto dolore per i morti e per la tragedia devo dichiararmi perdente e sconfitta perche' ho lavorato 70 anni scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedo il pianeta cosparso di sangue.

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lunedì 17 agosto 2009

Afghanistan, Esteri e Difesa ammettono: è guerra.

Afghanistan, Esteri e Difesa ammettono: è guerra. Ma chi dovrebbe difendere la Costituzione (e il lavoro, e la libera informazione, e i servizi pubblici) è troppo occupato a discutere delle proprie poltrone e delle altrui puttane)
Meglio La Russa, e meglio Franco Frattini, di chi oggi dovrebbe stare all'opposizione e ieri stava al governo di questo Paese.

Senza ipocrisie, il ministro degli Esteri e quello della Difesa ci dicono che l'Italia è in guerra. Per preparare la pace.

Non c'era bisogno di loro per capire che questo Paese è precipitato nella barbarie.

Le fabbriche chiudono, e l'opposizione si occupa delle sue poltrone e delle altrui puttane.

Si attacca l'unità dello Stato e l'opposizione si occupa delle sue poltrone e delle altrui puttane.

Si cancella la libertà di informazione e l'opposizione si occupa delle sue poltrone e delle altrui puttane.

Si elimina il servizio pubblico radiotelevisivo, rapinando miliardi di euro ai cittadini, e l'opposizione si occupa delle sue poltrone e delle altrui puttane.

Si dice con malcelato disprezzo che la Costituzione italiana è carta straccia e l'opposizione si occupa delle sue poltrone e delle altrui puttane.

Siamo in guerra, ve ne rendete conto? Sveglia!

1) Secondo la giurisdizione internazionale, il governo legittimo dell'Afghanistan è ancora quello talebano. Dice il generale Fabio Mini, cioé una persona molto lontana dal poter essere definita pacifista. "I talebani non sono semplici terroristi. O meglio non sono soltanto questo: sono anche i rappresentanti del governo legittimo dell'Afghanistan precedente alla guerra. In linea teorica, la loro legittimità sull'Afghanistan si esaurisce con la debellatio, cioè con la loro sconfitta, con la fine della guerra e con l'instaurazione di un nuovo governo legittimo. Ma se gli americani continuano la guerra contro di loro significa che la debellatio non è stata completata, che il governo è un fantoccio degli occupanti e che in sostanza i talebani continuano a combattere giuridicamente in nome di uno Stato che non ha firmato alcuna resa e che non ha cessato di rivendicare la propria sovranità contro l'occupante di turno".

2) "Oggi la Costituzione con l’articolo 11 rifiuta la guerra. Dovremmo interpre­tare quel rifiuto alla guerra includendo anche le azioni propedeutiche al creare la pace", dice il ministro Frattini, perché "qui non si tratta di esercitazioni, bensì di azioni nelle quali davanti a noi ci sono ter­roristi, talebani, insorti ai quali la pace la dobbiamo imporre perché non c’è ancora. La imponiamo con la legittimazione della Nato, dell’Onu, ma parlare di una situazione di pace è come nascondersi dietro a un dito".
Frattini dice una cosa giusta e una cosa sbagliata: la Nato approva e legittima la guerra in atto. L'Onu invece no: le Nazioni Unite hanno dato il via libera, un po' obtorto collo per la verità, ad una missione internazionale di peacekeeping. Oggi invece quella missione non esiste più. Si chiamava "International Security Assistance Force", e secondo il sito dell'esercito italiano ha il compito di garantire un ambiente sicuro a tutela dell'Autorità afghana che si è insediata a Kabul il 22 dicembre 2001 a seguito della Risoluzione n. 1386 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2001. (Authorizes, as envisaged in Annex 1 to the Bonn Agreement, the establishment for 6 months of an International Security Assistance Force to assist the Afghan Interim Authority in the maintenance of security in Kabul and its surrounding areas, so that the Afghan Interim Authority as well as the personnel of the United Nations can operate in a secure environment).

La missione Isaf è poi passata sotto lo stesso comando che dirige Enduring Freedom, tecnicamente la guerra di invasione dell'Afghanistan, e di fatto, essendo stata completamente snaturata, non esiste più. Il tutto, ovviamente, senza che in Italia fosse fatto un passaggio di discussione parlamentare, che pur sarebbe stato obbligatorio.

Quindi, secondo il ragionamento dei nostri ministri e della nostra opposizione che forse distratta dalla discussione sulle proprie poltrone e sulle altrui puttane ha subito approvato l'idea di Frattini e La Russa, è lecito combattere in armi un governo e un Paese purché come fine ultimo ci sia qualche cosa di alto e importante, come la pace. Un ragionamento assurdo, paradossale. Perché seguendolo se ne dedurrebbe che chiunque prenda le armi per un fine che lui e i suoi alleati ritengano importante e alto sarebbe legittimato. Lo sarebbe stato Saddam quando ha invaso il Kuwait, lo sarebbe stato Hitler quando ha invaso la Polonia, lo sarebbero stati - se è vero come dicono in molti che dietro le loro armi ci fossero i servizi segreti dell'Est - le Brigate Rosse.

E noi siam qui, costretti a leggere e ascoltare e vedere in tv non un ragionamento serio sulla paradossale situazione in cui siamo caduti, ma - quando va bene - una discussione sulle proprie poltrone e sulle altrui puttane.

Forse, quando ci faranno assistere ai combattimenti dei gladiatori e ai leoni che mangiano i diversamente credenti, qualcuno di potente si accorgerà che duemila anni di crescita civile sono stati spazzati via. Sempre che non sia distratto dalle proprie poltrone e dalle altrui puttane.

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Le città rurali del Chiapas

Le città rurali del Chiapas

Con grandi rulli di tamburi, qualche giorno fa la rappresentante dell'Onu in Messico e il governatore dello stato di Chiapas hanno inaugurato la «prima cittá rurale sostenibile al mondo». Situata nel municipio di Ostuacan, si chiamerá Nuevo Juan de Grijalva e secondo i piani sarà abitata da almeno 1.800 persone, originarie di una decina di comunità rurali della zona. Secondo i suoi progettisti la sostenibilità del progetto, costato finora 7 milioni di dollari, sta in una rete di iniziative imprenditoriali e produttive (serre per ortaggi, caseificio, un migliaio di ettari di piantagioni con sistema agroforestale, case, un ospedale rurale), che spingeranno la popolazione locale «a trasferirsi nella città rurale dove troveranno attività produttive, servizi fondamentali e connessioni telefoniche ed Internet, in modo che possano vivere del proprio lavoro, cosa assolutamente fondamentale». Il governo vuole espandere il modello: i lavori di costruzione per altre due città «sostenibili» sono già cominciati nei municipi indigeni di Ixhuatan e Jaltengo, e ci sono progetti per la costruzione di altre 25 città rurali in Berriozabal, Tecpatan e Copainalá.
Non tutti in Chiapas però sono d'accordo sui parametri e sui principi di sostenibilità di questa visione di gestione territoriale. Soprattutto perché in Chiapas già esistono da tempo realtà di vita e produttive ecosostenibili e participative, valutate secondo criteri e norme internazionali.
Secondo la Ong Pueblos del Sureste e la rete Ciepac (www.ciepac.org), il riordinamento territoriale sottinteso al progetto delle Città Rurali «presuppone la conservazione e la liberazione di aree naturali già sotto il manifestato interesse di varie multinazionali per l'importanza dei banchi genetici della flora silvestre in loco, per la possibilità di brevetti farmaceutici, l'imbottigiliamento di acqua dolce e la cattura dei bonus di carbonio per i mercati internazionali. Vogliono conservare quello che resta delle aree naturali senza la presenza della popolazione, che serviranno per giustificare il modello delle città rurali sostenibili. E le zone intermedie di selva tropicale già distrutte saranno riconvertite in piantagioni forestali commerciali o in prodotti per l'agro-export: litchee, palma da olio, caucciú, limone, rambutan, cacao... La popolazione deportata sarà concentrata in queste città rurali, diventando un esercito industriale di riserva per il lavoro nelle piantagioni da esportazione, nelle miniere, nelle maquiladoras o nelle aree di servizio, come autisti o cameriere nei centri turistici di lusso».
Altri denunciano che le fondazioni coinvolte in questo progetto fanno solo maquillage sociale: «Con modeste donazioni, presentato con una vernice verde-ecologica, umanitaria e altruista, stabiliscono relazioni di fiducia con diversi settori del governo, da usare in seguito per un accesso privilegiato alle succursali dell'impresa stessa o per altri tipi di favori. Le fondazioni create dalle 93 imprese, associazioni religiose e universitarie participanti promuovono gli interesse delle stesse imprese, dei loro direttivi o dei variopinti politici di turno». Questo programma travolgerà le forme di vita tradizionale indigena, contadina e comunitaria, spingendo la popolazione locale in un modo di produzione di piccola proprietà orientata al mercato esterno. Alcuni si spingono a fare un paragone con i «villaggi modello» (definiti poi «poli economici strategici») creati negli '80 dal governo guatemalteco nelle comunità maya - un sistema militarizzato di controllo territoriale contro la guerrilla...

di Fulvio Gioanetto
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