Le Carte Parlanti

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Mundimago

martedì 30 giugno 2009

Sindrome siciliana

Sindrome siciliana

Giuliano Santoro


Alla fine dell’Ottocento, il conservatore illuminato Leopoldo Franchetti coniò la definizione di «facinorosi della classe media» per descrivere la situazione sociale siciliana. Quel concetto ha navigato fino agli anni sessanta del Novecento, quando Peppino Impastato e i suoi compagni cominciarono a utilizzare la categoria di «borghesia mafiosa» per spiegare l’intreccio tra le professioni foraggiate dagli emolumenti statali e il tessuto produttivo della Sicilia. Oggi anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso parla di una «borghesia criminale».

Per questo motivo: perché per comprendere l’Italia di Berlusconi e le sue crisi [come quella alla Regione Siclia provocata dall’«autonomista» Raffaele Lombardo] bisogna imparare a riconoscere questo figura sociale che, in maniera diversa da come aveva profetizzato Pasolni, conia l’incoscienza plebea del sottoproletariato e la smania del successo a tutti i costi della borghesia rampante.

Adesso, Lombardo e Berlusconi dicono di essersi messi d’accordo. In realtà le almeno cinque correnti in cui è divisa la destra nell’isola di Montalbano e Riina, non hanno ancora capito come coniugare i loro interessi. E il presidente del consiglio non ha ancora fatto sapere dove pensa di trovare gli almeno 4 miliardi di Fondi per le aree sotto-utilizzate che spetterebbero alla Regione amministrata da Lombardo e che, in una vorticosa partita di giro, stanno tappando le falle della crisi economica, delle richieste della Lega, del terremoto all’Aquila e dell’Expo milanese del 2015. C’è da scommettere che questo scollamento della politica dalla società che si è manifestato in Sicilia sta per palesarsi anche in altre parti del paese, ce ne accorgiamo tutti i giorni.

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lunedì 29 giugno 2009

Il coraggio dei ragazzi del web contro Ahmadinejad

Il coraggio dei ragazzi del web contro Ahmadinejad

di Rachele Gonnelli

Chiusi i siti, espulsi i giornalisti esteri, incarcerati quelli iraniani - se ne contano 33, l’Iran è diventato il primo della lista per repressione di giornalisti, sorpassando la Cina -, intercettati e poi bloccati gli sms e ora i blogger. L’ultima mannaia che si abbatte sull’ondata di contestazione al regime che ha su Facebook il volto di Saeed Valadbaygi, con i capelli tirati dal gel e il suo amore dichiarato per la pizza. Sparito. Non è certo il primo. È l’ultimo.

La prima vittima acclarata è stata la reporter iraniano-canadese Zara Kazemi, torturata e uccisa nel carcere di Evin. Un caso che ebbe molto risalto perché il fratello si impuntò di chiedere il corpo indietro - un diritto per ogni musulmano - e poi sottoporlo ad autopsia. Era il 2003. Sei anni dopo, il 19 marzo scorso, è stata certificata la morte di Omidreza Mir Sayafi, venticinquenne cybergiornalista. «Morto per troppi farmaci antidepressivi, un suicidio», è stato detto dalle autorità. Era in carcere per quello che scriveva.

Si spera che siano vivi, ma mancano tuttora all’appello anche Hossein Derakhshan e Ali Mazroui. Il primo è il papà della galassia blogger in Iran. Iraniano-canadese anche lui. Arrestato nel novembre scorso appena sceso all’aeroporto Ayatollah Khomeini. Non si hanno più sue notizie da allora, neanche se è stato arrestato e con quali capi d’imputazione. Il secondo, Ali Mazroui, è il presidente dell’associazione giornalisti iraniani. Anche di lui non si hanno notizie da parecchie settimane. Il giro di vite si è nel frattempo stretto ancor di più.

Prima delle elezioni il regime ha oscurato Facebook. Un gesto che, paradossalmente, ha attirato invece che respinto i giovani iraniani verso i social network e la comunicazione via web. Messaggi, video, reportage dalle piazze, foto scattate col cellulare. I testi in lingua farsi vengono poi tradotti in inglese da blogger iraniani espatriati negli Stati Uniti o altrove e rimbalzati sulla Rete. Censurato Facebook, il fiume di notizie si è incanalato sul più agile Twitter. Lì è stato anche trasmesso un sistema per aggirare i controlli: settando i propri interventi, tutti da ogni parte del mondo, sull’ora di Teheran, sembrando cioè tutti iraniani. Messaggi brevi, appuntamenti e uno stringato diario di avvenimenti. L’Onda verde trova ogni canale, ogni fessura nel muro del sistema, per andare avanti. Per darsi appuntamento per le manifestazioni e non correre il rischio di essere intercettati i giovani iraniani ricorrono persino alle scritte sulle banconote. «Oggi tutti a piazza Baharestan», «lo sciopero è andato bene». Certo, niente ha il crisma della verità nel passaparola. Neanche l’identità di Saeed e degli altri. Finché riemergono dalla galera.


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Michael Jackson



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Michael Jackson,
l'autopsia non chiarisce la morte.
Sospetto sull'abuso dei farmaci
Michael Jackson, il re del pop,
è verosimilmente morto a causa dei (troppi) medicinali che stava prendendo per prepararsi ai 50 concerti d'addio che avrebbe dovuto tenere a partire dalla metà di luglio a Londra. Nel suo entourage i dubbi sono pochi, ma si dovranno attendere tra le 4 e le 6 settimane per saperlo con assoluta precisione, dato che l'ufficio del coroner della contea di Los Angeles ha chiesto una serie di esami supplementari.

Nel frattempo, terminata in serata l'autopsia, il coroner ha autorizzato la famiglia a seppellire il cantante, e nei prossimi giorni si svolgeranno i suoi funerali, probabilmente in California, e più che probabilmente seguiti da decine di migliaia di fan provenienti da tutto il mondo. In una breve conferenza stampa a Los Angeles, il portavoce del coroner, Craig Harvey, ha indicato che le cause esatte della morte saranno conosciute soltanto 'tra quattro e sei settimane« al termine di nuovi esami supplementari.

Escludendo che la morte sia sta provocata da un trauma esterno o da una caduta, Harvey ha detto che occorreranno nuovi esami , tossicologici e polmonari, per stabilire come è deceduto Jackson. L'autopsia è durata circa tre ore e il portavoce dell' ufficio del coroner ha confermato che Jackson è morto nella Emergency Room dell'ospedale dell'Ucla, il pronto soccorso.

Il primo a parlare apertamente della dipendenza dai medicinali di Jackson, in particolare dall'antidolorifico Demerol, è stato uno degli avvocati della famiglia, Brian Oxman. Il sito web Tmz, il primo ad annunciare la morte del cantante, citando un familiare di Jackson aveva indicato dal canto suo già giovedì sera che sarebbe stata proprio una iniezione di Demerol a provocare l'arresto cardiaco al cantante, finito in coma e poi morto poco dopo. Inoltre, la polizia di Los Angeles sta continuando a cercare il medico personale di Jacko, Conrad Murray, di cui si sono perse le tracce, e ha sequestrato la sua automobile ancora parcheggiata nella proprietà di Bel Air che Jackson affittava per circa 100 mila dollari al mese.

La morte del re del pop ha suscitato grande emozione in tutto il mondo, e i suoi numerosi fan si sono raccolti in decine e decine di città di tutto il pianeta per ricordarlo, tra le lacrime, cantando i suoi più famosi successi. Lo hanno ricordato anche i vip di ogni angolo della terra: dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama all'attrice Liz Taylor, dal presidente francese Nicolas Sarkozy (e Carla Bruni) a Renzo Arbore.



Dopo l'uscita dal carcere, il Dottor Murray rilascia un'intervista al Mail in cui ha parlato di se stesso e del suo rapporto con Michael Jackson e di cosa è successo nelle ore che hanno preceduto la morte della star americana.

di Francesco Raiola:

Michael Jackson non credeva più a nessuno, non si fidava di nessuno al punto da non lasciare neanche che la domestica gli pulisse la stanza, per paura che potesse rubargli qualcosa, ma lasciando la sua camera da letto in condizioni pessime, racconta il dottore, che per molto tempo è stata l'unica persona che ha avuto accesso alla vita privata del cantante: "Quanto eravamo intimi? Beh, tenevo il suo pene tra le mani ogni sera per fissargli il catetere a causa della sua incontinenza" ha detto Murray per rendere l'idea. Sempre al Mail racconta gli ultimi istanti della vita del cantante negando che le cose siano andate come ha sostenuto l'accusa, ovvero che abbia lasciato il cantante al propofol prima di abbandonare la stanza. Anzi, lui era completamente contro l'idea di dargli l'anestetico, ma quando aveva cominciato a curarlo, MJ lo utilizzava in forti dosi per dormire - la mancanza di sonno era uno dei problemi maggiori della popstar - e toglierglielo improvvisamente era impossibile: "Michael non era uno a cui potevi dire 'no'" e così aveva deciso di ridurgli man mano le dosi, consapevole, tra l'altro, che il propofol non era l'unico dei suoi problemi. Quella sera, intanto, gliene aveva prescritti 25mg, ovvero una dose minuscola che sarebbe scomparso dal suo corpo in 10 minuti, restando seduto sul letto del cantante per almeno un'ora e mezza, ovvero il tempo che servì a MJ per addormentarsi.

Quando lasciò la stanza del cantante, continua, aveva un battito del cuore normale e i segni vitali erano buoni. Cosa successe, allora, dopo che se ne andò? "Credo che si sia svegliato, abbia preso la sua dose di propofol e se la sia iniettata, ma l'avrebbe fatto troppo velocemente, andando in crisi cardiaca. Quando sono tornato nella stanza ho visto subito che non respirava, ma non sono andato in panico. Ho tastato l'inguine e la carotide ma non c'era battito e così ho cercato di rianimarlo. Ho resuscitato migliaia di persone. Era un mio amico, certo, ma mi sono attenuto allo standard medico". Insomma Murray nega di aver abbandonato il cantante e rigetta al mittente le accuse di chi sosteneva che non si sarebbe comportato secondo gli standard, cercando di rianimare MJ sul letto, invece che a terra: "Sono un cardiologo di professione, è ciò che faccio nella vita". A quel punto, rendendosi conto che la situazione era gravissima, ma non ancora definitiva, avrebbe chiamato aiuto e sarebbe andato con l'amico in ospedale dove neanche l'elettrostimolazione avrebbe dato i suoi frutti. E così il cantante fu dichiarato morto alle 14.26 e lui fu il primo a dare la notizia ai figli.
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IMAGO 

Termine introdotto da C.G. Jung (1875-1961), con riferimento a un’Imago ‘materna’, ‘paterna’, ‘fraterna’ e divenuto di uso comune in psicanalisi. Caratterizzata come ‘rappresentazione o immagine inconscia’, l’Imago è piuttosto uno schema immaginario, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, ne orienta cioè le proiezioni. Formatasi sulla base delle prime relazioni del bambino con l’ambiente familiare, l’Imago non va peraltro considerata come correlato di figure reali, ma presenta carattere fantasmatico; così a un’Imago genitoriale minacciosa e terribile possono corrispondere genitori reali estremamente miti...leggi tutto -

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Le 12 costellazioni dello Zodiaco, che si trovano lungo l'eclittica, 
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venerdì 26 giugno 2009

Falso Herald Tribune



"Storico accordo sul clima"
Falso Herald Tribune "verde"

Distribuita da Greenpeace in 50mila copie una finta edizione straordinaria dell'International Herald Tribune che racconta l'importante risultato dei lavori al summit sul clima di Copenaghen del dicembre 2009. "Una previsione che vorremmo si avverasse: così chiediamo impegno ai capi di Stato"
di BENEDETTA PERILLI

ROMA - Silvio Berlusconi è stato ricoverato d'urgenza a Roma per aver inalato un'eccessiva quantità di coriandoli lanciati in aria dopo il suo trionfante ritorno dalla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Copenaghen. Qui, insieme agli altri rappresentanti dei governi dei Paesi industrializzati, ha firmato uno storico accordo a tutela del clima. Per il presidente del Consiglio anche danni minori dovuti ai numerosi abbracci da parte dei cittadini festanti che hanno atteso il suo ritorno a Fiumicino. La notizia è sull'International Herald Tribune distribuito oggi in tutto il mondo in edizione straordinaria e gratuita. Sì, perché davanti a notizie storiche anche i colossi dell'editoria rinunciano ai profitti: il più importante accordo a tutela del clima è stato firmato a Copenaghen dai rappresentanti mondiali. A renderlo noto è stato il segretario esecutivo delle Nazioni Unite Yvo de Boer: "L'accordo è stato siglato. Un accordo che permetterà al mondo di arginare i cambiamenti climatici".

L'edizione straordinaria del quotidiano, interamente dedicata all'accordo, riporta però una data che non sarà sfuggita ai più attenti: sabato 19 dicembre 2009, ovvero il giorno successivo alla chiusura dei lavori del summit sul clima che si terrà a Copenaghen, appunto nel prossimo dicembre. Insomma, la copia circolata stamattina a Roma, davanti a Camera, Senato, ministeri e ambasciate, ma anche in altre 28 nazioni, altro non è che un falso realizzato da Greenpeace per invitare i capi di Stato dei Paesi industrializzati a siglare a Copenaghen un accordo ambizioso per il clima.

Le richieste avanzate con la campagna, sostenuta da centinaia di attivisti in tutto il mondo, sono chiare: entro il 2020 il taglio di almeno il 40% delle emissioni di gas serra rispetto ai valori del 1990, lo stanziamento di 110 miliardi di euro a sostegno dell'economia verde, l'adattamento dei Paesi in via di sviluppo e la creazione di un fondo delle Nazioni Unite a protezione delle foreste.

Il giornale, che è stato distribuito in 50mila copie, riporta nelle otto pagine la cronaca da Copenaghen, Londra, Parigi, Amsterdam, Atene, Brasilia, Atlanta, Dallas, Nuova Delhi, oltre a tre editoriali, una sezione dedicata all'economia, un'anticipazione del nuovo film di Robert Redford Il protocollo di Copenaghen che vedrà Cameron Diaz e Julia Roberts tra le probabili interpreti di Angela Merkel e un divertente oroscopo tutto virato su temi climatici. Chiudono l'edizione il cruciverba "verde" e una serie di fumetti, tra i quali degli improbabili Gorefield e Halvin and Cobbes, che parlano della conferenza di Copenaghen.

L'apertura del finto quotidiano titola "I capi di Stato firmano uno storico accordo per salvare il clima", e spiega come l'accordo porterà a importanti tagli nelle emissioni di gas serra, metterà fine alla deforestazione e promuoverà soluzioni per la protezione climatica."Sarzoky: il nucleare è morto", "Exxon finalmente pulia", "In Grecia il sole splende per le energie rinnovabili", questi alcuni degli altri titoli dell'edizione straordinaria.

A pagina 3 fa sorridere l'articolo dedicato all'Italia. Titolo: "Berlusconi spiazza i critici". All'interno si legge di come il premier abbia annunciato, durante il discorso finale del suo intervento, che tutti gli investimenti di Mediaset e Fininvest verranno spostati a supporto delle energie rinnovabili. L'articolo si conclude con la citazione di un reale e recente studio dell'Università Bocconi secondo il quale possono essere creati, nel solo settore elettrico, 250mila nuovi posti di lavoro entro il 2020 con l'investimento nelle energie rinnovabili.

Una previsione che Greenpeace vorrebbe diventasse reale, così come la divertente copia utopica circolata oggi nel mondo.
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giovedì 25 giugno 2009

Le trame sull'uccisione di Anna Politkovskaja

Le trame sull'uccisione di Anna Politkovskaja

La Corte suprema russa ha ordinato un nuovo processo sull’assassinio di Anna Politkovskaja [uccisa il 7 ottobre del 2006], dopo aver respinto la sentenza che aveva mandato assolti i presunti killer della giornalista. Ma non sembra essere una buona notizia. In una intervista all’Osservatorio sul Caucaso [ripreso il 16 giugno dal sito lsdi.it], la giornalista cecena in esilio, Majnat Abdulaeva, parla del processo Politkovskaja dicendo: «È stato un bene che non li abbiano condannati, che non siano diventati dei capri espiatori solo perché si potesse dire all’occidente “Ecco, abbiamo preso i colpevoli!” Sono assolutamente sicura che sotto l’attuale potere della Federazione Russa non sapremo mai i nomi del mandante e dell’esecutore, non verranno mai chiamati alla sbarra a rispondere. Al momento non è opportuno, non è vantaggioso per le autorità russe, far sapere chi è il mandante dell’omicidio, e finché ci sarà al potere l’attuale regime, la verità sull’omicidio di Anna Politkovskaja sarà tenuta nascosta. Fra venti, forse trenta anni, sapremo chi l’ha ordinato, perché e a chi è stato fatto un regalo il giorno del compleanno di Putin. Ma non adesso…».

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sabato 20 giugno 2009

Il piano C.a.s.e. e la città dell'Aquila

Il piano C.a.s.e. e la città dell'Aquila

Antonello Ciccozzi Università dell'Aquila

Il piano C.a.s.e. si configura sempre di più come un'operazione orientata in base ai meccanismi della shock economy, che non risponde al bisogno di aiutare i cittadini terremotati e che dimostra di ignorare la varietà degli habitat urbani e rurali.

La varietà degli habitat culturali dell’aquilano si manifesta nella preponderanza della differenziazione tra i luoghi urbani e i luoghi rurali. Per chiarire il discorso che qui si propone, questa compresenza può essere schematizzata descrivendo nostro Comune come un territorio, per così dire, a «due colori»: zone «verdi» [i contesti rurali] affiancano un centro «blu» [la città e la sua estensione periferica, che grossomodo forma una linea prossima all’asta fluviale dell’Aterno, tra i due bastioni montuosi che cingono la valle, sfumando tra Preturo e Bazzano]. Spesso non si tratta di demarcazioni nette, e vi sono luoghi in cui si assiste a una mescolanza più o meno contrastiva di questi elementi [ad esempio la zona tra Bazzano e Paganica, in cui, a qualche chilometro dalla città, il nucleo industriale occupa un territorio dove permane una consistente vocazione agricola, oppure verso Sassa, al limite Ovest dell’espansione urbana], altre volte la connotazione rurale dei luoghi appare più netta [come a Roio Piano o a Camarda]. Il punto, per quanto ci riguarda, è però che tali peculiarità non possono essere in nessun modo omesse da qualsiasi progetto di pianificazione territoriale che contempli la necessità di preservare la qualità della vita; ignorare questi aspetti è viceversa indice di orientamenti votati unicamente al perseguimento di interessi economici, a discapito del valore della qualità della vita.
Come ho scritto non appena i particolari ne furono rivelati , il problema principale del progetto C.A.S.E. – che il governo Berlusconi, grazie l’avallo di Bertolaso, ha indicato alla Protezione Civile e successivamente calato sul comune dell’Aquila – è il seguente: la tipologia abitativa che, nella forma dell’offerta di aiuto, lo Stato cerca di imporre alla cittadinanza, in troppi casi non tiene conto della differenza di habitat culturali presente nel nostro comune. Questa si manifesta, appunto, lungo un continuum urbano/rurale caratterizzato da una serie di punti di soglia: discontinuità identitarie in cui i paesi esperiscono il sé collettivo in termini di pronunciata ruralità, e la città manifesta, ovviamente, una vocazione all’identità urbana. In parole semplici: qui come altrove la città è città e il paese è paese. Questo significa varietà, preservare la varietà è un valore in quanto essa è antitodo contro l’isotropia; un luogo che presenta una varietà interna armoniosa è un luogo dove si può scegliere, e la scelta è la premessa per la libertà.
Perciò non può passare in sordina che il progetto C.A.S.E. porterà – in molti tra i venti siti scelti per l’allocazione – una tipologia abitativa condominiale in contesti rurali; in luoghi dove, da anni, abbiamo scoperto che è così importante che nei piccoli borghi si curi l’essenza del luogo che i vincoli paesaggistici impongono una tipologia consona anche per i coppi dei tetti. Nel Parco Nazionale, dove anche le tegole devono essere di un certo tipo, si semineranno condomini, case di città. Non è un problema di essenza ma di posizionamento, non di forma abitativa ma di allocazione, non di elemento ma di relazione: è come mettere un divano in cucina o una lavastoviglie in salotto. È una scelta, in molti tra in venti siti individuati nel Comune, totalmente scriteriata. L’onere di preservare il luogo – di certo un obiettivo difficile dopo la tragedia che ci ha colpito – è l’onere di preservare la qualità della vita; la necessità portata dal disastro limita il campo di scelte, ma non può diventare un pretesto per legittimare qualsiasi scelta.
Va ricordato che la scelta che si sta attualmente perseguendo – quella di una new town a connotati urbani disintegrata entro contesti spesso rurali, la 2] nel disegno esplicativo – è esito di una opposizione plebiscitaria dei poteri locali alla proposta governativa di costruire una new town unitaria e omogenea, schematizzata dal modello 1]. Quella che non è stata invece perseguita è una strategia allocativa – probabilmente la più razionale – basata su criteri di prossimità e su una differenziazione architettonica tra edilizia urbana e rurale, schematizzata dal disegno 3]. In molti sospettano che, più che la qualità della vita dei cittadini, si sia scelto di difendere il prestigio economico dei terreni contigui alla periferia urbana, più che il valore della tutela identitaria si sia pensato a interessi delle lobbies locali . Lo Stato ha imposto al Comune una tipologia abitativa unitaria, e il Comune ha ottenuto come contropartita la possibilità di tutelare dal borseggio degli espropri alcuni terreni? Così si vocifera, e non sarebbe la prima volta che in Italia si manifestano tali gradi di priorità nelle scelte pubbliche. I poteri locali ormai dichiarano paternalisticamente: «lo sappiamo che è un obbrobrio, ma ce lo hanno imposto, meglio di così non si poteva fare». Siamo sicuri?
Forse è troppo tardi per ripensare in profondità a questa decisione che – nel sensazionalismo dei primi giorni di emergenza – è stata propinata alla nostra città grazie alla fretta di cui si serve la shock economy per imporsi ai luoghi. Forse no, c’è ancora spazio per la volontà: non tentare sarebbe una colpevole mancanza; specialmente nell’idea che si potrebbe non rigettare tutto il progetto, ma proporre, per alcuni siti, una revisione dei criteri di allocazione di questi edifici. Nei territori più «verdi», dove queste case minacciano di stuprare il carattere del luogo – e, nel contempo, di costringere gli abitanti della città alla deportazione rurale – c’è bisogno urgente di sollecitare un ripensamento, una richiesta di negoziazione nella possibilità di rivedere le localizzazioni in cui maggiormente si manifesta l’inadeguatezza di artefatti urbani in situazioni profondamente ancora rurali. Allo stesso modo, per i paesi meno «verdi», si potrebbe chiedere allo Stato una progettazione architettonica di questi condomini che sia più consona alle peculiarità dei luoghi staccati dalla cinta della periferia urbana.
Questo nella consapevolezza che ormai una parte consistente della popolazione [chi viveva in edifici con inagibilità strutturali] dovrà attendere molti anni prima di rientrare in casa propria: i circa 13000 posti letto previsti dal progetto C.A.S.E. spetteranno probabilmente a loro: probabilmente queste case in parte sono una necessità, ma andrebbero posizionate e pensate meglio, nella consapevolezza che non saranno affatto sufficienti a soddisfare tutte le richieste. Pertanto, contestualmente, per gli altri forse 20-30000 sfollati che avranno la possibilità di beneficiare di tempi di rientro più brevi [da pochi mesi a uno o due anni?] sarebbe il caso di pensare, seriamente e in tempi brevi, all’utilizzo di containers. Il governo si è servito probabilmente di un preconcetto diffuso a livello di immaginario collettivo nazionale: i containers sono invivibili. Certamente trent’anni fa quelli del terremoto dell’Irpinia – a cui implicitamente ci riferiamo per evocare timore, disagio, sofferenza – lo furono, quelli del terremoto di Marche e Umbria pare non siano stati così male. Mentre oggi i containers [che si chiamano «moduli abitativi temporanei»], quelli di buona qualità, pare siano ben altra cosa, eccellenti nell’isolamento climatico, capaci di un confort accettabile per tempi lungi di certo infinitamente meglio delle tende. Però probabilmente i containers – conferendo più autonomia agli utenti – sarebbero stati meno adatti al fine di mettere sotto sequestro la popolazione e propinare alla città ferita ettari e ettari di cementificazione, appaltati quasi esclusivamente a ditte esterne.
Nelle tendopoli l’aiuto – sincero, onesto e innegabile di buona parte del sistema della Protezione Civile – si [con]fonde con sentori di colpo di Stato locale; la mano tesa a dare mimetizza la mano che prende. Qui la popolazione viene tenuta inebetita dalla necessità, viene privata di potere di scelta, addomesticata a qualsiasi ricatto politico, le masse degli sfollati sono costrette nell’inganno di promesse che sottendono molto probabilmente strategie più orientate al perseguimento di profitto economico che all’obiettivo dell’aiuto delle popolazioni terremotate. Le tendopoli spesso si rivelano come degli «altrove interni», dei «non-luoghi» di concentramento dove la gente è resa dipendente da un sistema di sostentamento che esclude la città dalla riproduzione economica del tessuto sociale: se ci avessero dato i containers avremmo seguitato a fare la spesa nei posti di sempre, a mantenere una certa autonomia, così ci siamo ritrovati ostaggio del sistema degli aiuti. Con il passare dei giorni il «non vi mettiamo nei containers, vi diamo direttamente le case» si inizia a rivelare nel dubbio dell’inganno, nei termini di un «vi teniamo in tenda così possiamo fiaccarvi, mantenere un sistema di sostentamento centralizzato che costa 3 milioni di euro al giorno, propinarvi tonnellate di cemento che daranno profitto e lavoro a aziende a noi affiliate». Ecco l’ambivalenza tra aiuto e sciacallaggio, ecco la strada per praticare strategie di shock economy: le grandi catastrofi sono eventi che sgretolano il tessuto sociale dei luoghi che colpiscono, questo costituisce per il capitalismo di conquista una ghiotta occasione. Nei terremoti, come nelle guerre c’è chi conta morti e danni e chi programma opportunità, in tali situazioni grandi investimenti sono proponibili e propinabili con estrema facilità in quanto – semplicemente – la necessità opprime la possibilità di scelta, e l’aiuto può diventare una strategia di profitto.

Docente di antropologia culturale, Università dell’Aquila
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giovedì 18 giugno 2009

L'Onda verde iraniana in piazza per il quinto giorno

L'Onda verde iraniana in piazza per il quinto giorno

Sarah Di Nella

Per il quinto giorno consecutivo l'Onda verde scende in piazza per denunciare presunti brogli elettorali. Dal suo sito il riformista Moussavi chiede ancora una volta la ripetizione delle elezioni. Il regime minaccia chi protesta, in piazza e sul web.

In Iran il regime degli ayatollah ha accusato i media stranieri di essere «il megafono dei rivoltosi», e minaccia azioni legali contro chi usa internet per alimentare la protesta. Ma l’opposizione non cede e si prepara al quinto giorno di proteste contro i presunti brogli alle elezioni presidenziali. I sostenitori di Mir Hossein Moussavi hanno convocato una nuova manifestazione, ma intanto Mahmoudh Ahamdinejad insiste che le elezioni di venerdì scorso non sono state truccate e che 25 milioni di voti sono una conferma per il suo governo.

Ora che i giornalisti stranieri sono stati confinati negli alberghi, i Guardiani della rivoluzione – i pasdaran – se la prendono con il web, nel mirino i media online, i blogger e i socialnetwork. Secondo i media statunitensi, il dipartimento di stato Usa ha chiesto a Twitter di sospendere la manutenzione del sito che si è di fatto sostituito ai mezzi di comunicazione tradizionali. Un esempio della «e-diplomacy» cara a Hillary Clinton. In un comunicato il ministero «raccomanda di cambiare il loro scorretto rapporto con gli avvenimenti iraniani» e avverte che «al momento opportuno, e senza alcuna esitazione, i nemici dell’unità nazionale iraniana saranno messi sotto scacco».
Il procuratore della Repubblica di Isfahan, nell’Iran centrale, ha fatto sapere che le persone arrestate per i disordini potrebbero essere condannate a morte. «Il codice penale islamico – ha dichiarato il magistrato – prevede la pena di morte per coloro che creano danneggiamenti e incendi, considerandoli Mohareb, nemici di dio».

Nel pomeriggio l’Onda verde ha appuntamento in piazza nel centro di Teheran. «Fai girare il messaggio via email o telefono: la riunione si terrà in silenzio e senza slogan», dice il documento che hanno ricevuto i sostenitori di Moussavi e dell’altro candidato sconfitto, Mehdi Karroubi. Il candidato riformista ha inoltre chiesto per domani una manifestazione e una giornata di lutto nazionale, in ricordo delle vittime negli scontri di lunedì scorso. Il leader dell’opposizione ha lanciato l’ennesimo appello per la ripetizione del voto, dal suo sito dove si legge: «Desideriamo una protesta pacifica contro il modo disonesto nel quale si sono svolte le elezioni e perseguiamo l’obbiettivo del suo annullamento e della sua ripetizione, in modo da garantire che questa odiosa truffa non possa più ripetersi».

Intanto il sito del quotidiano britannico The Guardian annuncia che l’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani avrebbe convocato una riunione di emergenza dell’assemblea degli esperti, proprio sulla situazione politica in cui versa il paese. L’assemblea degli esperti nomina la Guida Suprema, svolge un monitoraggio sulla sua attività e ha anche il potere di destituirla. Ma per ora la notizia non è confermata.
Oggi in parlamento, durante una seduta pubblica, è scoppiata una rissa tra due deputati riformisti delle città di Qazvin e Takestan e alcuni deputati conservatori. Sono dovuti intervenire altri deputati. Il Majlis è composto da una fazione minoritaria di riformisti e da una consistente maggioranza conservatrice che sostiene il presidente Mahmoud Ahmadinejad.

Continuano gli arresti di oppositori di Ahmadinejad a Teheran e in diverse città di province dove si è propagata la protesta. Anche lì, come nella capitale, gli abitanti salgono di notte sui tetti dei palazzi e scandiscono «Allah Akbar», in riferimento alle proteste del 1979, quando l’ayatollah Khomeiny invitava a protestare contro il regime imperiale del Shah. Ogni sera risuonano anche i klaxon nei quartieri di diverse città, in sostegno al Mir Hossein Moussavi. E la protesta è sbarcata anche sui campi di calcio. A Seul, dove la nazionale iraniana giocava una partita di qualificazione per i mondiali del Sudafrica, alcuni calciatori sono scesi in campo con delle fasce verdi al polso. Tra i tifosi campeggiava uno striscione con la scritta «Vai al diavolo dittatore» e hanno scandito slogan come «Compatrioti, saremo con voi fino alla fine».

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mercoledì 17 giugno 2009

Giustizia a cronometro

Giustizia a cronometro

Finalmente una giustizia che va veloce. A urne ancora virtualmente ancora aperte, domenica i ballottaggi, la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta sui voli di Stato. Una giustizia ad orologeria, direbbe il premier: l'inchiesta si apre alla vigilia del primo turno elettorale e si chiude alla vigilia del secondo, neanche due settimane per raccogliere prove. Giustizia a cronometro. Sarà un'eccezione, fidatevi. Fanno davvero sorridere quelli che ora gridano: era tutta una cagnara sollevata dall'opposizione, avete visto, non c'è reato. Ribadiamo, a costo di risultare ripetitivi, alcuni punti. 1) La vicenda Noemi, che ha portato poi ad occuparsi delle foto sequestrate da Ghedini, degli ospiti di villa La Certosa ed infine dei voli di stato usati come taxi per chitarristi ballerine di flamenco e cantanti cubane è stata sollevata dalla rivista di Fini e da Veronica Lario, in seguito spiegata nel dettaglio da Berlusconi medesimo in una serie di monologhi televisivi in prima serata. Questi sì in piena campagna elettorale e senza contraddittorio. L'opposizione politica è stata prudentissima, i giornali (pochi) hanno informato dei fatti. 2) Mai il premier ha risposto alle domande che riguardano la sua frequentazioni di ragazze minorenni, portate in villa con aerei elicotteri o altri mezzi anfibi di trasporto. 3) Il fatto che utilizzare l'Air Force One per trasferire nelle feste il suo privato night club (o, in alternativa, la flotta aerea Fininvest equiparata per l'occasione a volo di Stato) non sia un reato è apparso fin dal principio almeno dubbio data la vaghezza dei regolamenti vigenti, del resto continuamente modificati. Non è questo il punto. Molte cose non sono reato (dipende dai paesi, dai tempi) eppure sono censurabili: l'uso privato di beni pubblici, per esempio. Il sultanato. Il mondo intero ne parla. Berlusconi risolve sempre tutto dicendo che lui paga. Dove non può corrompere pagando taglia: i fondi della pubblicità a tutti tranne che ai suoi giornali e tv. Il vero rischio è quello dell'assuefazione e della rassegnazione. Non è normale, no. Non è inevitabile. E' una prepotenza padronale, è un abuso, è il principio di una deriva dispotica. Bisogna continuare a dirlo. Anche se non è reato, perchè poi le leggi se le scrive da solo.

Vedo poi che moltissimi si rallegrano per il fatto che il premier non abbia detto ad Obama, nelle quasi due ore (traduzione da e per l'inglese compresa) che ha passato con lui, che ora capisce come l'uomo discenda dalle scimmie o bongo bongo. In effetti non l'ha fatto. Immagino che glielo abbiano molto raccomandato. I suoi giornali titolano: «Omaba gli ha chiesto aiuto». L'intera stampa e le tv americane, viceversa, non dedicano un monosillabo all'incontro. Era prevedibile che Obama non volesse interrompere i rapporti diplomatici con l'Italia per il fatto che temporaneamente è rappresentata da costui. Anche il «Berlusconi mi piace personalmente», considerati i precedenti, suona come una giustificazione indotta dal suo contrario. Quando è vero non c'è bisogno di specificarlo. Noi ora possiamo gioire del fatto che per un paio d'ore il premier è stato composto alla Casa Bianca oppure occuparci degli sfollati d'Abruzzo che passeranno il prossimo Natale in tenda, G8 o non G8. Ieri erano a migliaia coi cartelli sotto palazzo Chigi. Vi parliamo di loro, cioè di noi.

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martedì 16 giugno 2009

la legalita' contro le mafie



Un'informazione Libera, nuove forme di comunicazione per la legalita' contro le mafie.

Sabato 20 Giugno 2009 alle ore 10.00, presso la "Bottega dei Sapori e dei Saperi della Legalità" in P. zza Castelnuovo 13 si terrà un incontro dove verrà ufficialmente presentata l'associazione "Dialogos" di Corleone presidio territoriale della rete di associazioni di "Libera" nell'alto Belice. Al dibattito, dove interverranno tra gli altri Salvo Vitale, amico storico di Peppino Impastato e la giornalista Norma Ferrara della Fondazione Libera Informazione verrà presentata in anteprima la pagina palermitana del giornale "Corleone Dialogos" edito dall'associazione e verranno presentati i primi risultati la prima inchiesta giornalistica sulle zone d'ombra dei beni confiscati in provincia di Palermo.
LIBERA PALERMO

Piazza Castelnuovo 13, 90141 Palermo

tel. +39.091322023 / +39.0917574861

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domenica 14 giugno 2009

Onda contro Gheddafi, il testo censurato

Onda contro Gheddafi, il testo censurato

A seguire il testo che doveva essere letto all'interno dell'Aula Magna da alcune studentesse dell'Onda. Durante l'intervento la sicurezza ha però tolto il microfono alla ragazza che stava intervenendo. «Ancora una volta l'università si dimostra intolllerante al dissenso», spiegano gli studenti.

Siamo gli studenti dell’Onda, quelli che si sono mobilitati contro i tagli di università e ricerca, quelli che hanno fatto rivivere quest’università come uno spazio reale di democrazia e di decisione diretta.
Oggi, stiamo portando in quest’aula Magna, San Papier, il santo protettore dei migranti, dei clandestini, di tutti quelli che muoiono in mare e che una volta arrivati, vengono brutalmente respinti nel paese d’origine.
Il convegno di oggi è l’occasione, non certo per realizzare un incontro tra diverse culture, ma per rinsaldare lo storico «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la grande Giamahiria araba libica popolare socialista».
Sappiamo benissimo che dietro questo trattato ci sono ben altri interessi, che parlano di centrali elettriche, infrastrutture e sfruttamento delle risorse, un piano di collaborazione che riguarda e vede coinvolti paesi dell’Africa occidentale e dell’Europa, tra cui l’Italia figura tra i paesi maggiormente impegnati. Con la mobilitazione di oggi, che si sta tenendo dentro e fuori quest’aula, vogliamo porre sopratutto il punto su una questione che non riteniamo semplicemente di diritto, ma anzittutto etica e politica.
La nostra protesta si vuole opporre anzittutto all’articolo 19 di questo trattato che mette sullo stesso piano la lotta al terrorismo, la lotta al traffico di sostanze stupefacenti e l’immigrazione clandestina. Crediamo che il problema delle migrazioni, dello spostamento forzato e al contempo molto coraggioso da parte di migliaia di vite umane, non possa essere ridotto ad un mero problema di criminalità e di ordine pubblico.
La Libia, insieme all’Italia, si sta rendendo complice di una politica fatta di violazione dei diritti umani, delle libertà individuali e collettive, di respingimenti e stragi in mare. Con il Trattato viene defintivamente smantellato un diritto fondamentale, come quello d’asilo per i rifugiati e vengono esternalizzati i controlli alle frontiere verso la Libia, in cui sono state aperte delle vere e proprie prigioni. Questi lager sono già stati denunciati da tutte le organizzazioni internazionali, per i maltrattamenti e gli abusi che questi migranti-prigionieri subiscono quotidianamente, senza considerare che, una volta rilasciati, vengono respinti verso il deserto e lasciati morire.
Crediamo che l’invito fatto da Frati a Gheddafi sia inopportuno, perchè, in primo luogo non vogliamo che la Sapienza sia utilizzata come una vetrina né per chi porta avanti queste politiche né per il governo, con tutto il suo bagaglio di accordi criminali.
In secondo luogo, crediamo che quest’incontro di oggi sia del tutto inopportuno perchè si colloca in una fase di forte crisi del nostro paese, non solo economica, ma soprattutto culturale e politica. In Italia stiamo assitendo ad un pesante processo di ridefinizione dei confini della cittadinanza, dei codici dell’inclusione e dell’esclusione in termini di razzismo e di restrizione complessiva delle libertà.
Le dichiarazioni di un presidente del consiglio che afferma che l’Italia non sarà mai multietnica, mentre la Lega aumenta il suo bacino elettorale su elementi xenofobi e razzisti, ed un governo che rivendica i respingimenti in mare e i lager chiamati anche CIE, parlano chiaro!!!
A chi ci additerà come intolleranti, rispondiamo: «E’ vero». Siamo intolleranti: intolleranti al razzismo e alle politiche sull’immigrazione, che negli ultimi anni i governi italiani ed europei hanno scelto, intolleranti, al tentativo del governo di scaricare i costi della crisi sui migranti, sugli studenti, sui precari e sui lavoratori.

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sabato 6 giugno 2009

Resistenza contadina

Resistenza contadina

Giovanni Carrosio ricercatore presso l'Università di Trieste


In tutto il mondo migliaia di persone hanno ricominciato a lavorare la terra e a creare reti. Una recensione del nuovo libro del sociologo olandese Jan Douwe van del Ploeg, che spiega come e perché i contadini nonostante tutto non si estinguono

L’agricoltura mondiale è in crisi. Per la prima volta nella storia dell’umanità, essa si manifesta in una triplice forma: come ulteriore sfruttamento del lavoro, come crisi agro-ambientale e come rottura nei confronti della società. La prima forma di crisi, quella storica, è data dalla contrapposizione di interessi tra il modo di organizzare la produzione agricola e le aspirazioni di chi abita e lavora la terra. Da qui, le lotte contadine contro il latifondo e i tentativi di riforma agraria in diversi paesi del mondo. La crisi agro-ambientale, invece, prende forma quando l’agricoltura si organizza e sviluppa attraverso una sistematica distruzione degli ecosistemi. La diffusione globale di modelli capitalistici e imprenditoriali di organizzare i processi produttivi in agricoltura porta il conflitto tra produzione di cibo e conservazione dell’ambiente su tutto il pianeta. La rottura con la società, infine, avviene nel momento in cui le aspirazioni dei consumatori, che sempre più richiedono cibi salubri e di qualità, si scontrano con gli scandali alimentari legati all’agroindustria.

È l’emergere dell’impero, come principio ordinatore che sempre più governa la produzione, la distribuzione e il consumo di cibo, a rendere così complessa la crisi e ad acutizzarla. Ciò avviene perché l’ordine imperiale, fondato sull’espansione territoriale e sull’accumulazione senza fine, impone ovunque sfruttamento ecologico e socio-economico. Questa crisi complessa e multidimensionale non si scatena soltanto dall’alto verso il basso, ma dà vita ad una erosione delle sostenibilità economiche delle stesse imprese agricole e degli imperi capitalistici alimentari. Le imprese capitalistiche che riescono a superare la crisi, non tutte ce la fanno o ce la faranno, puntano sullo sviluppo di una ulteriore modernizzazione ed industrializzazione agricola, finendo per acutizzarla ancora di più sul lungo periodo.

Ma un segnale di speranza c’è. I contadini non si stanno estinguendo. Anzi, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo assistiamo a complessi e importanti processi di ri-contadinizzazione. La persistenza dei contadini, la nascita di nuove forme di ruralità, la conversione di imprese agricole tradizionali verso modelli di produzione eco-compatibili danno vita ad una alternativa possibile alla pervasività imperiale. Il superamento della crisi può passare soltanto da qui. È questa la tesi dell’ultima fatica del sociologo olandese Jan Douwe van der Ploeg (The New Peasantries. Struggles for Autonomy and Sustainability in an Era of Empire and Globalization), che sostanzia le sue argomentazioni utilizzando un patrimonio trentennale di ricerche sul campo, condotte soprattutto in Italia, Olanda e Perù.

L’alterità contadina ha i suoi tratti specifici nella lotta per l’autonomia, che trova espressione nell’auto-organizzazione dei processi produttivi e nell’auto-governo sostenibile delle risorse. Sono questi gli elementi fondamentali che distinguono l’azienda contadina dall’agricoltura capitalistica. Quest’ultima, invece, fonda il suo modello produttivo sulla dipendenza tecno-produttiva dall’industria e sull’utilizzo indiscriminato delle risorse naturali. Ma quella contadina non è soltanto una lotta per l’autonomia, è una resistenza spesso silenziosa alla ricerca della sostenibilità eco-sociale.

- Lotta, resistenza e sostenibilità -

Lotta per l’autonomia, resistenza e sostenibilità. Sono questi i tre concetti chiave, strettamente interrelati, sui quali si muove la ricerca di van der Ploeg. Il punto di partenza dell’analisi sono i places of production. Quei luoghi dove lavoro e produzione sono localizzati e interagiscono con l’ambiente naturale, prendendone le forme e a loro volta provocando dei mutamenti, in un processo coevolutivo che viene definito co-produzione.

Ed è proprio nei luoghi di produzione, e nei modelli organizzativi adottati, che van der Ploeg, rifacendosi anche alla tradizione dell’operaismo italiano, individua le forme di resistenza contadine. La resistenza non solo come protesta, manifestazione di dissenso, sciopero, ma come routine produttiva, fatta di ritmi, patti di cooperazione, modalità di scambio tra contadini, e anche materiali, macchinari e metodi utilizzati nei processi produttivi. Questa forma di resistenza è onnipresente nell’agricoltura contemporanea: svariate forme di agricoltura alternative a quella industrializzata, conservazione sul campo delle varietà e delle razze locali tradizionali, rilocalizzazione, processi di sviluppo rurale endogeni e partecipati, riduzione degli input esterni. La resistenza risiede in tutte le forme di alterazione, siano esse in continuità con il passato o di nuova natura, volte a contrastare l’ordine capitalistico che domina la nostra società. Forme di resistenza molteplici e irriducibili a un unico modello, perché, come ormai insegnano le pratiche altermondialiste, proiettate ad incidere sulla dimensione locale, ma con un senso di responsabilità globale, e perciò diversificate perché devono operare in condizioni differenti. Ci sono echi Negriani nel definire la resistenza come forma di produzione e di azione, non soltanto come reazione. E proprio da Negri, van der Ploeg riprende l’idea di soggetto costituente, in questo caso di una nuova ruralità, rappresentato da quelle moltitudini contadine non riducibili a categoria e pratiche granitiche.

Nelle campagne, la resistenza è strettamente legata alla difesa e alla creazione di vecchi e nuovi spazi di autonomia e la produzione di autonomia è conseguenza diretta delle forme di resistenza.

Van der Ploeg si contrappone ad una visione classica che la scienza sociale ha dato della condizione contadina. Vittime dello sviluppo, soggetti sociali costretti da rapporti di dipendenza, marginali rispetto ai grandi processi di modernizzazione e di sviluppo. Si tratta di una sola faccia della medaglia. I contadini stanno resistendo e lottando per mantenere e creare forme di autonomia sociale, politica e nel controllo delle risorse, e lo fanno introducendo una varietà di risposte innovative negli spazi di produzione. Centrale nella ricerca di autonomia è la ricostruzione dei cicli ecologici nelle aziende e sui territori. La reincorporazione dei processi produttivi nell’ambiente naturale implica la riduzione della dipendenza dai mercati esterni, sotto forma di input di produzione (macchinari, agenti chimici, flussi tecno-finanziari, conoscenza), per un nuovo patto con la terra e con il territorio locale.

- La ricostituzione della ruralità e il principio contadino -

La ricostituzione della ruralità e la nuova centralità contadina rappresentano un paradigma emergente, il solo che potrà risolvere o contrastare l’acutizzarsi della crisi agraria in tutte le sue forme. La strada sarà lunga e difficile, ma dei segnali in questo senso si leggono sia nei paesi poveri che nelle aree industrializzate del pianeta. Il paradigma dello sviluppo rurale in contrapposizione alla modernizzazione agricola che faticosamente si sta affermando in Europa ne è un segnale, seppure ancora debole. Ma soprattutto, è la conversione di molte imprese agricole, che recuperano un modello di produzione contadino per far fronte alla crisi di competitività, a far pensare ad un processo in nuce che potrà avere una portata considerevole. Sono le politiche agricole che devono saper cogliere questi segnali, dare strumenti economici e legittimazione alle nicchie di innovazione che si stanno diffondendo a macchia di leopardo.

L’alterità del principio contadino sempre di più dimostra la propria efficacia nel coniugare le sostenibilità economiche, ecologiche e sociali e nel rimarginare le fratture e le crisi prodotte dall’agroindustria. Da sempre indomito ad ogni tentativo di marginalizzazione, silenzioso resiste, costruisce nuovi spazi di autonomia, produce alternative. È il modello della responsabilità contrapposto a quello della catastrofe.

Jan Dowe van der Ploeg insegna sociologia rurale presso l’università di Wageningen (Olanda), è un riferimento centrale per gli studiosi di sociologia e politica agraria in Europa. Coordina un ampio gruppo di ricercatori che è riconosciuto a livello internazionale come “Scuola di Wageningen”. La sua attività ha direttamente influenzato il riorientamento della Politica Agricola Comunitaria verso lo sviluppo rurale e l’introduzione di politiche innovative a livello regionale. Tra le altre sue più recenti pubblicazioni si segnalano: Living Countryside. Rural Development processes in Europe: the State of the Art, Elsevier, Doetinchem 2002; The Virtual Farmer, Van Gorcum, Assen 2003; Seeds of Transition. Essays on novelty production, niches and regimes in agriculture, Van Gorcum, Assen 2004

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mercoledì 3 giugno 2009

13 miliardi per comprare aerei da combattimento



Risparmi? Il governo impegna 13 miliardi per comprare nuovi aerei da combattimento

di Gianluca Ursini

Due giugno, festa della Repubblica, fino a poco tempo fa anche delle Forze armate.
Qualcuno l’ha voluto commemorare con un ‘No’ ad un nuovo impegno bellico italiano. Circa un migliaio di manifestanti si sono radunati pacificamente all’aeroporto militare di Cameri, Novara, dove si costruisce il capannone che ospiterà la nuova linea di produzione dell’Alenia aeronautica: i ‘JSF’ Joint Strike Fighter. O F-35, destinati a sostituire dal 2014 ‘Tornado’ e ‘Amx’ dell’aereonautica e ‘Harrier II’ della Marina.

Il Governo Berlusconi, con l’astensione del Pd, ha votato in aula finanziamento e impegno in questa coproduzione (con l’americana Lochkeed Martin) l’11 aprile scorso, a poche ore dal terremoto dell’Aquila, dopo un dibattito in aula di soli 120 minuti.


LE CIFRE L’impegno finanziario assunto dal Consiglio dei ministri prevede lo stanziamento immediato di 600 milioni di euro per l’ampliamento dei capannoni Alenia (controllata da Finmeccanica, azienda statale) che produrranno i primi 750 esemplari; fino al 2022 Roma spenderà altri 17 miliardi di dollari, pari a 13 miliardi di euro, quasi uno l’anno: ne dobbiamo acquistare 131. Nonostante i soldi non si trovino per i terremotati e per il mezzo milione di precari che entro fine anno, per Cgil, perderanno il lavoro senza protezione sociale, già a inizio anno il ministro della Difesa Ignazio La Russa aveva reperito i 7 miliardi necessari per l’acquisto di 121 caccia ‘Eurofighter’, in sostituzione dei vecchi F-104. Anche gli Eurofighter vengono prodotti a Cameri, insieme con i cargo da trasporto truppe C-27J Spartan venduti ai paesi dell’Est.

IL LAVORO La Cgil non era presente ufficialmente oggi nelle fila dei manifestanti, perché appoggia “politiche che favoriscono l’occupazione’’, visti i 2mila dipendenti Alenia della fabbrica novarese. Nuovi assunti sono promessi con gli F35: per Berlusconi “si arriverebbe a 10mila con l’indotto (bum!)”, mentre per la Rete italiana Disarmo (www.disarmo.org) “da duemila addetti Cameri passerebbe a 2.200, più altri 800 nell’indotto”. La rete per il Disarmo, che ha promosso la manifestazione con l’Ong ‘Sbilanciamoci!’ e i cattolici di ‘Pax Christi’, fa notare con Massimo Paolicelli come “le armi siano uno dei pochi settori che non conoscono crisi: nel 2008 le industrie italiane ne hanno vendute per 4miliardi 285 milioni, triplicando il fatturato, aumentato del 222%; ma giova notare come l’industria degli armamenti sia tra le meno ‘remunerative’ per la forza lavoro: investire nelle energie rinnovabili, a parità di costi, richiede il decuplo di operai. Per esempio, i 13 miliardi degli F 35 nel fotovoltaico o nell’eolico impiegherebbero 10mila addetti”.

LE PROTESTE L’appuntamento ‘No F35’ ha raccolto tutti gli habitué delle lotte antagoniste: c’erano oltre 100 ragazzi da Vicenza del collettivo ‘No Dal Molin’, parecchi ‘No Tav’ dalla Val di Susa; a radunarli alla stazione di Novara c’era Walter Bovolenta della ‘Assemblea Permanente No F35’. “Non vogliamo una ulteriore militarizzazione del nostro territorio: l’aeroporto militare sorge alle soglie del Parco del Ticino tra Novara e Varese, dove Nato e Difesa sono già presenti a meno di 30 km con le basi di Solbiate Olona e Bellinzago. Ci opponiamo al progetto della costruzione degli F 35 ‘europei’ sul nostro territorio ( i 258 prenotati da Marina Usa e britannica saranno costruiti nell’impianto Lochkeed in Texas, mentre a Finmeccanica sono arrivati ordini di 570 F 35 da Olanda, Turchia, Danimarca Canada Australia, confronta www.peacereporter.net) perché i prossimi 5 anni di test e collaudi verrebbero effettuati nei nostri cieli, con l’immaginabile inquinamento acustico. E comunque sono chiaramente caccia da assalto che verranno impiegati in teatri operativi come Afghanistan o Pakistan; il che potrebbe anche non andarci bene”. Anche chi pacifista non è ha espresso dei dubbi sulla tenuta del progetto: la Norvegia si è ritirata dal progetto in marzo, mentre nello stesso mese la Corte dei Conti olandese obiettava che già il 30% della produzione è stata prenotata (anche Singapore e Israele hanno chiesto ad Alenia 25 modelli, con opzione per altri 50) mentre solo il 17% dei componenti è stato già testato; la stessa Gao Usa (Government accountability Office, loro Corte dei Conti), ha invitato l’amministrazione Obama a “’rivedere il progetto”. Non una parola dall’esecutivo Berlusconi. Ignazio La Russa non vede l’ora di ammirare i 62 F 35B a decollo verticale partire dalle portaerei ‘Garibaldi’ e ‘Cavour’, o i 69 F 35 A a decollo convenzionale solcare il cielo sopra Cameri e l’Olona.
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il coraggio dell'obiezione di coscienza

Diritti sociali. Gonnella e il coraggio dell'obiezione di coscienza
Patrizio Gonnella


Uno dei capitoli più interessanti del Rapporto sui diritti globali 2009 è quello dedicato ai diritti sociali, con dati, notizie e commenti, tra cui quello di Patrizio Gonnella di Antigone. Qui di seguito, alcuni stralci dell’intervista a Gonnella [dal titolo «Tra razzismo dall’alto e follia repressiva, serve il coraggio dell’obiezione di coscienza»] realizzata da Dario Stefano Dell’Aquila.

La situazione è quella di una nave impazzita. Di fronte al razzismo istituzionale, ai provvedimenti illiberali di questo governo bisogna ritrovare il coraggio dell’obiezio di coscienza individuale e collettiva. Obiettare rispetto a leggi ingiuste. Obiettare rispetto a pratiche istituzionali violente. Obiettare rispetto a pratiche para-istituzionali ugualmente violente. Obiettare nei confronti di chi rinuncia a obiettare, ossia di chi rinuncia a fare opposizione politica. Obiettare, come fece Antigone nei confronti della legge ingiusta degli uomini che le impediva di sotterrare il fratello morto in battaglia.
Nei giorni scorsi è partita la Campagna Non avere paura (www.nonaverpaura.org) voluta da associazioni laiche e religiose. Si è manifestata pubblicamente una minoranza sociale e culturale che rappresenta una larga fetta di associazioni e organizzazioni sindacali contrarie all’imbarbarimento dei nostri tempi. … Si è creato un circolo vizioso drammatico tra la classe politica e l’opinione pubblica. Esso si alimenta rimbalzando dall’una all’altra il gioco della creazione di un nemico posticcio e artificioso. Questo circolo va interrotto. Oggi, coloro i quali stanno dalla parte dei diritti umani sono contro il Pacchetto sicurezza, contro il reato di immigrazione clandestina, contro l’aggravante della clandestinità, contro la criminalizzazione di chi affitta un appartamento agli immigrati, contro i commissari ad hoc per i rom, contro le ronde, contro le denunce degli irregolari da parte dei medici.
Il Pacchetto sicurezza è intriso di qualunquismo securitario. Così si spiegano le norme che prevedono l’estensione della custodia cautelare obbligatoria, la modifica, o meglio il peggioramento, dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, una pena carceraria per gli avvocati che, comunicando con un detenuto in 41 bis, favoriscono l’elusione delle prescrizioni imposte, l’istituzione di un registro apposito per le persone senza fissa dimora, la legittimazione delle ronde private, così negando il monopolio dell’uso della forza alle polizie.
[…] L’industria privata delle prigioni è oggi in una fase di stallo dopo il boom degli anni Ottanta negli Stati Uniti e degli anni Novanta nel Regno Unito. 111.000 sono i detenuti ristretti nelle carceri private statunitensi. Corrispondono più o meno a un ventesimo del totale della popolazione detenuta… I detenuti “privatizzati” sono cresciuti di 20.000 unità dal 2000 a oggi. Nonostante ciò il business è in crisi. Si è infatti fermata la costruzione di nuove galere private e si è interrotto il processo di liberalizzazione dell’apparato securitario nordamericano…
Anche in Inghilterra è in corso un ripensamento delle politiche di privatizzazione. La BBC ha aperto quest’anno il dibattito intorno alla cattiva efficienza delle carceri private. L’associazione dei direttori di carcere ha chiesto ufficialmente di ripensare la politica di privatizzazione. L’esplosione del business si è quindi fermata….
Mentre negli Stati Uniti e nel Regno Unito si discute di una rinnovata centralità del settore pubblico, in Italia – con il dovuto ritardo – si apre il dibattito sulle carceri private. Crescono i detenuti in modo inversamente proporzionale alla cultura giuridica di questo Paese. Oggi sono 61.000. I posti letto sono solo 43.000. Ogni mese entrano nelle prigioni italiane circa mille nuovi detenuti. Sino a poco tempo fa, la popolazione reclusa cresceva di mille unità l’anno. Erano 60.000 qualche giorno prima dell’approvazione del provvedimento di indulto…
Come mai crescono i detenuti così rapidamente? Sostanzialmente per tre motivi di natura legislativa. Il primo motivo ha due nomi: Bossi e Fini e la loro sciagurata legge sull’immigrazione. Sciagurata per i suoi effetti diretti e per quelli indiretti. Tra quelli diretti vanno annoverati i 1.873 stranieri in carcere per irregolarità nell’ingresso o nella permanenza in Italia. Tra gli indiretti vi è l’illegalità forzata in cui versano centinaia di migliaia di persone in attesa di una regolarizzazione che non arriva mai. Il secondo motivo è la legge ex Cirielli sulla recidiva, approvata nel dicembre del 2005 dal precedente governo Berlusconi. Essa prevedeva aumenti di pena e riduzioni di benefici per i recidivi. Anestetizzata dall’indulto ora inizia a produrre i suoi effetti devastanti in termini di affollamento penitenziario. Il terzo motivo è dato dalla criminalizzazione dei tossicodipendenti determinato dalla legge Fini-Giovanardi sulle droghe.
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lunedì 1 giugno 2009

prova della Terra futura




Diritti alla prova della Terra futura
Lucia Alessi

Un incontro, che ha visto riuniti esperti internazionali di teoria economica e sociale, per riflettere sul rapporto tra sviluppo e diritti apre la prima giornata di Terra futura, grande fiera dell'economia solidale e del benvivere. Relazione introduttiva affidata a Saskia Sassen, la teorica delle città globali.

«Estendere i diritti sociali per far crescere l’economia». Questo il titolo di uno degli incontri di apertura della prima giornata di Terra futura, la mostra convegno internazionale per le «buone pratiche di vita, di governo e d’impresa, verso un futuro equo e sostenibile» che da oggi fino a domenica 31 maggio colorerà gli spazi della Fortezza da Basso a Firenze. Un incontro, che ha visto riuniti esperti internazionali di teoria economica e sociale, per riflettere sul rapporto tra sviluppo e diritti sociali e umani, analizzando soprattutto le relazioni di causa ed effetto che li tengono imbrigliati nelle maglie della stessa rete.
E’ toccato a Saskia Sassen, sociologa ed economista di origine olandese, tracciare la panoramica generale di questo particolare momento storico economico, violentemente subissato dalla crisi finanziaria, ma che invece potrebbe sfruttare a proprio vantaggio crisi di altro genere, come quella ambientale. «Questa crisi apre un buco che si sta già richiudendo. I governi intervengono per ristabilire lo status quo messo in ginocchio dal crollo della finanza – spiega. La crisi ambientale, invece, è la vera opportunità: non sarà invocando i diritti, neanche i più indiscussi, a far cambiar le cose: ma le azioni pratiche, concrete che mettiamo in campo». Un livello locale che può diventare sottomissione se fondato sulla finanza, ma anche occasione se fondato su sui principi della sostenibilità ambientale. Un greening, insomma, che ancora una volta promette, e poi mantiene, grandi cambiamenti, a partire dall’incremento occupazionale, il miglioramento della qualità della vita e delle relazioni sociali. «L’anno scorso negli Usa circa 800 amministrazioni locali hanno preso provvedimenti in netto contrasto con la normativa nazionale: per necessità di tipo ambientale è stato messo in discussione tutto il sistema locale», continua Sassen, «se il trilione di euro iniettato nelle grandi banche, fosse stato invece distribuito per le 7000 piccole banche degli Usa, quella sarebbe stata una vera risposta alle tante crisi», conclude.
«La storia dell’umanità evidenzia un rapporto molto stretto tra diritti e sviluppo: – interviene Massimo Livi Bacci, antropologo e demografo – basti pensare al diritto alla salute: nei paesi poveri e poco sviluppati non esiste alcun diritto all’assistenza sanitaria, così come il diritto alla mobilità, oggi garantito dalle Costituzioni nazionali, ma, per esempio, negato sotto il fascismo dalle leggi contro l’inurbamento», verso le quali il governo Berlusconi sembra oggi nutrire una curiosa ammirazione nostalgica.
Quasi 8 milioni di stranieri irregolari presenti in Europa e 100 milioni di persone scese al di sotto del fabbisogno nutrizionale tra il 2007 e il 2008, «dovute soprattutto alle manovre speculative sui prodotti alimentari essenziali come mais, grano, soia», sottolinea Francois Houtard, sociologo belga, illustrando il famoso grafico a imbuto sulla distribuzione della ricchezza nel mondo, dove l’82,7 per cento della ricchezza mondiale risulta concentrata nelle mani del 20 per cento della popolazione.
La «rabbia» e il «coraggio» che Sant’Agostino considerava figli della ‘speranza’, hanno permesso a Stefano Zamagni, economista, di riassumere l’incontro: «Non capisco lo stupore per una crisi che i più grandi premi Nobel per l’economia avevano previsto da anni; né capisco la fiducia nelle soluzioni degli stati mondiali, che sono stati parte attiva nel determinare la crisi. Confido molto, invece, nel coraggio della società civile di riappropriarsi del pubblico, sottraendolo allo stradominio dello stato e al potere di costruire un mercato diverso, contrapponendo all’economia capitalista un’economia ‘civile’», conclude.
Grandi accuse agli stati ‘sovrani’, quindi, dove l’unico potere realmente rafforzato da questa crisi sembra essere l’esecutivo, quello meno rappresentativo, affossando l’effettiva funzionalità degli strumenti legislativi, che a oggi risultano fin troppo in linea con le indicazioni dei vari governi mondiali.
Non a caso, l’unico importante provvedimento a favore dei sistemi differenti di economia, è stata una risoluzione del Parlamento europeo dello scorso 19 febbraio, quando è stata approvata e riconosciuta la centralità dell’economia sociale in risposta alla crisi, per mano di un organo non strettamente legato ad alcun esecutivo e perciò maggiormente indipendente e rappresentativo dei bisogni dei cittadini.
Una proposta concreta per rispondere alla crisi arriva anche da Tonino Perna, economista e sociologo, che pensa alla crisi anche come opportunità di sostituire la cassa integrazione, «molti disoccupati e pochi mantenuti statali», con la settimana corta «che garantisce alta occupazione, e produttività», permettendo allo stato di investire in servizi e incentivi ben distribuiti.
E’ stata proprio la distribuzione equa di persone e risorse economiche, quindi, una delle principali preoccupazioni emerse dall’incontro, causa ed effetto delle tante disuguaglianze contro cui lottare.

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Acerra fa tremare il Cavaliere

L'inchiesta su Acerra fa tremare il Cavaliere
Eleonora Formisani

L'inchiesta sull'inceneritore di Acerra mina la credibilità malferma del governo Berlusconi. Bertolaso si difende: «Il termovalorizzatore è in fase di rodaggio» - non ancora «in funzione» come sosteneva il Cavaliere - e attacca «fuori dal termovalorizzatore ci sono gli squali». E' ancora infinita «emergenza rifiuti».

«Sono sereno, ho fatto il mio dovere». Bertolaso non è preoccupato per le inchieste che la magistratura sta portando avanti sulla gestione dei ciclo dei rifiuti in Campania e che vede coinvolti alcuni dei suoi collaboratori, in primis Marta De Gennaro, suo ex braccio destro.
«Sono serenissimo sia nella precedente esperienza che in questa, ho sempre fatto solo ed esclusivamente il mio dovere», ha aggiunto ieri Bertolaso durante una conferenza che ha tenuto ieri a Palazzo Salerno. Una sorta di bilancio a un anno dall’«emergenza rifiuti» in Campania. Una emergenza non ancora risolta.

L’emergenza nel Casertano ad esempio che, come ha sottolineato l’assessore comunale all’igiene urbana Luciano Luciano, «è tutta interna all’ex Consorzio Ce2, la ex GeoEco, che non riesce a tenere dietro ai bisogni ordinari della nostra città a causa della carenza di automezzi». Qui ieri sono state eseguite ordinanze di custodia cautelare e sequestro emesse dal Gip nei confronti di Salvatore Belforte, capo dell’omonimo clan operante nel Casertano, e di altri quattro esponenti di spicco del clan. Tra i reati contestati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico illecito organizzato di rifiuti e truffa aggravata ai danni di Ente Pubblico, riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita, estorsione, reati tutti aggravati dalla finalità dell’agevolazione mafiosa.
La provincia di Napoli è invasa dai rifiuti, a Marano, Giugliano, Quarto e Ercolano dove, spiega il sindaco Nino Daniele, «Per ora restano in strada per 24/48 ore al massimo, ma la situazione è destinata a peggiorare» e la raccolta differenziata non è mai stata avviata.

La «monnezza» ha raggiunto anche il capoluogo partenopeo nonostante «nelle discariche della Campania c’è ancora spazio per oltre tre milioni di metri cubi di tonnellate [di spazzatura ndr.], come ha detto Bertolaso.
Insomma, tutto questo dimostra che «il governo del fare», quello «con il quale in un anno abbiamo liberato Napoli e la Campania dai rifiuti, abbiamo mantenuto in Italia la nostra compagnia di bandiera, abbiamo garantito che nessuna banca sarebbe fallita, abbiamo difeso il credito delle famiglie e difeso i più deboli», come recitano gli spot elettorali che il premier ha registrato per le elezioni amministrative, non è mai esistito o, almeno, ha fallito.
A smentire il governo è il suo stesso sottosegretario Bertolaso che, sempre ieri, ha detto come a voler difendersi che il «termovalorizzatore è in fase di rodaggio». Si confuta così la tesi sostenuta dal premier che a Napoli, durante un vertice in prefettura lo scorso 27 aprile, aveva detto: «Il termovalorizzatore di Acerra funziona benissimo – e aggiungeva anche che – l’inquinamento è vicino allo zero».
Inquinamento vicino allo zero? Niente di più falso secondo «Medici per l’Ambiente» che ieri ha lanciato un appello in seguito alla notizia sullo sforamento dei livelli consentiti di polveri sottili, PM10, che provengono proprio dall’Inceneritore. Le tre centraline che controllano la qualità dell’aria hanno infatti rilevato sforamenti di 18 giorni a partire dal 23 marzo, quando la legge consente massimo 35 sforamenti all’anno.

Ma è proprio il filone delle indagini aperte su Acerra che attacca Bertolaso. «Siamo consapevoli che Acerra dà fastidio. Sappiamo bene che fuori dal termovalorizzatore ci sono gli squali, c’è chi vuole entrare, sabotare, ricattare». Poi denuncia come «rappresentanti della polizia giudiziaria chiedono documenti non sempre accompagnati dalle procedure d’uso e devo confessarvi imbarazzo perché interrogano generali a due tre stelle trattandoli come se avessero commesso chissà che cosa. A volte le domande che pongono sembrano formulate quasi per dare l’informazione che qualcuno è sotto controllo. Non abbiamo agende segrete, non rispondiamo a nessuno che non sia lo Stato italiano».
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